Tra la nostalgia per Berlinguer e l’equilibrismo politico per restare al governo il più a lungo possibile e quasi con chiunque. Il percorso della sinistra italiana degli ultimi dieci anni ricorda una definizione sempre attuale: «Oscillare tra un paleomarxismo retorico e un neoliberismo acritico».
Ora siamo nella fase del «paleomarxismo retorico», dove a dichiarazioni forti e combattive non fanno rigorosamente mai seguito fatti. Le due fasi hanno almeno due punti in comune: il gruppo dirigente che è sostanzialmente lo stesso (con qualche abiura en passant) e un distacco ormai cronico dalla realtà di un Paese in lento e costante declino. Per certi versi ricorda i rivoluzionari da liceo, innamorati di quello che hanno letto sui libri, disinteressati al confronto con la realtà. Che nella migliore delle ipotesi viene vista come qualcosa da ricondurre ai propri schemi.
Per diventare la forza capace di realizzare e guidare il cambiamento, è decisivo il confronto con il mondo reale. E in un Paese del G7, fondatore dell’Unione europea, il confronto con la realtà significa rivedere radicalmente il rapporto con l’economia di mercato: un rapporto che non può essere basato su avversione o sudditanza, ma su pragmatismo e visione.
Il vecchio armamentario barricadero e beghino, che vede il benessere dei lavoratori iniziare dove finisce il mercato, non è solo anacronistico, ma anche colpevole: ha contribuito a trent’anni di stipendi fermi, marcando una distanza sempre più larga con il resto d’Europa. I dati Eurostat raccontano dal 2008 a oggi siamo quelli che hanno fatto peggio in Europa da questo punto di vista (solo la Grecia è alle nostre spalle). E non è solo una grande ingiustizia, ma è anche un macigno che soffoca la domanda interna e frena la crescita.
Una sinistra adulta reclama un welfare strutturato, che si compone di una sanità moderna ed efficiente, di una scuola al passo con i tempi, di pensioni adeguate al costo della vita, del diritto alla formazione continua per chi perde il lavoro, di un piano casa vero e proprio che in Italia manca dal 1963 e di molto altro. Allo stesso modo rivendica investimenti pubblici rilevanti nelle infrastrutture, nella crescita, nel rilancio industriale del Paese.
Ma tutte queste battaglie giuste si possono vincere solo se c’è un’economia di mercato regolata e funzionante. Cosa che oggi sembra un miraggio: nell’indice della Banca Mondiale siamo al 98esimo posto al mondo per semplicità di avviare un’attività economica, al 128esimo dal punto di vista fiscale, al 119esimo per l’accesso al credito, al 122esimo per far rispettare i contratti firmati.
L’idea che i salari siano sempre più bassi perché aumentano i profitti è uno slogan elettorale.
Non possiamo accontentarci di una spiegazione di comodo a un problema complesso se vogliamo davvero affrontalo. Se così fosse del resto sarebbe fortemente iniquo, ma probabilmente registreremmo delle code al confine di imprenditori stranieri e relativi capitali, invece il flusso è inverso, con gravi conseguenze per molte aree del Paese.
E non sono solo le aziende ad andarsene. In dieci anni è emigrato un milione di italiani, soprattutto giovani. Non alla volta di Paesi della decrescita felice o dell’anti-capitalismo messo in pratica, ma verso Berlino, Amsterdam, Londra, New York. Non in fuga dal mercato, ma verso le sue opportunità.
Neppure però si può pensare che la soluzione sia investire il mercato di realizzare una maggiore giustizia sociale. Se da un lato crea opportunità, dall’altro tende a restringere il numero di quanti ne possono davvero beneficiare.
Un’economia di mercato forte è una condizione necessaria per il benessere sociale, ma da sola non basta. È compito di una politica matura ricostruire il welfare e rilanciare l’ascensore sociale, mettendo al centro la dignità, i diritti, il futuro.
Per essere all’altezza della sfida bisogna lasciarsi alle spalle le nostalgie, i riti svuotati, le eterne rivincite, le pretese egemoniche, i complessi di presunta superiorità morale. In una parola il settarismo.
All’Italia servono riforme radicali. E il principale ostacolo a realizzarle è il radicalismo che si trincera dietro una mai risolta adolescenza politica: un lusso e allo stesso tempo una miseria offensiva delle vecchie e nuove povertà.
*ps: la citazione iniziale è di Rino Formica, del 1975. Siamo nel 2024, si potrebbe argomentare molto sugli anni persi. Meglio provare a recuperarli.