(Il grillino Di Battista giura che andrà 6 mesi in Sud America. Beato lui. Io per 6 mesi non parlo più di politica nazionale, e perciò vi propongo l’analisi dell’economista Michele Salvati, il quale spiega come la ribellione delle masse non sia un fenomeno solo italiano)
(dal Corsera) «La ribellione delle masse» contro i ceti politici e i governi dei loro Paesi — uso il titolo di un famoso libro di Ortega y Gasset — è da ultimo causata dal fatto che questi non riescono più a fornire il benessere e la sicurezza che avevano assicurato durante un lungo periodo del dopoguerra, grossomodo fino agli anni 90 del secolo scorso. E ciò a seguito di un radicale mutamento del regime dominante di politica economica, da un regime keynesiano in cui era impedita una libera circolazione internazionale dei capitali a un regime neoliberale e globalizzato. Questo è stato fonte di grandi progressi economici in Paesi una volta sottosviluppati — cosa che si tende a dimenticare — ma mette a rischio le condizioni di lavoro e di vita delle fasce più esposte alla concorrenza nei Paesi avanzati. Si tratta di milioni e milioni di lavoratori (… e cittadini elettori!) che vedono sparire i loro impieghi e allargarsi la forbice della distribuzione dei redditi. Se a ciò si aggiunge l’indebolimento dei partiti politici tradizionali, quelli che, in condizioni economiche più favorevoli, indirizzavano le domande delle «masse» verso obiettivi popolari ma realistici, arriviamo alla situazione odierna di tutti i Paesi avanzati di democrazia liberale: alla crescita impetuosa di movimenti anti élite, a volte di sinistra, ma prevalentemente di destra — nazionalisti, populisti, sovranisti — che invocano mutamenti radicali delle politiche perseguite dai vecchi partiti.
Gli effetti di questi sviluppi politici saranno poi diversi. Diversi perché, nelle singole democrazie, diversa è la comprensione degli elettori degli effetti imprevisti e indesiderati dei mutamenti radicali proposti; diversa la solidità dell’economia e quindi più o meno tollerabili le sofferenze inflitte alle popolazioni; diversa la qualità dei ceti politici e la capacità delle istituzioni di affrontare senza traumi crisi di questa portata: anche la Francia ha un popolo diviso come il nostro, ma poi le sue istituzioni costituzionali ed elettorali hanno (finora?) consentito un governo stabile nelle mani esperte di politici e tecnici più «responsabili». Insomma, alcuni Paesi, più forti economicamente e meglio organizzati dal punto di vista politico e istituzionale, riusciranno a cavarsela in modo accettabile, a rimediare alle più evidenti ingiustizie e distorsioni distributive che il regime di politica economica internazionale induce. Altri assai meno: e l’Italia, dopo il terremoto elettorale del 4 marzo, sembra inesorabilmente avviata ai primi posti della graduatoria dei Paesi che non se la caveranno bene. Questo nonostante l’eccellente capacità competitiva di molti settori del suo sistema economico, settori importanti ma insufficienti a sostenere un forte sviluppo di un Paese così grande e così «lungo», diviso tra un Nord e un Sud che quasi 160 anni di storia unitaria non sono riusciti a saldare insieme.
Naturalmente una via d’uscita «razionale» (oltre che benefica) dall’impasse in cui siamo caduti esisterebbe, ma il «razionale» è assai lontano dal «reale». «Basterebbe» che il popolo si avvedesse della natura irrealistica e demagogica delle soluzioni proposte dai movimenti più radicali; ch e comprendesse che solo l’Europa ha la possibilità di moderare le conseguenze più dannose di un capitalismo neoliberale e ormai completamente globalizzato; che spetta all’Italia e solo ad essa il compito di adeguare la sua economia e le sue istituzioni a uno dei modelli in grado di prosperare in condizioni di globalizzazione. E sono possibili anche modelli generosi nei confronti dei ceti svantaggiati, se il Paese è disposto a subirne le conseguenze fiscali: l’unica cosa che non può pretendere è che siano altri Paesi a farsene carico, se mancano le condizioni di solidarietà internazionale necessarie. In questo quadro «razionale», ma purtroppo «irreale», una democrazia liberale sarebbe compatibile con i vincoli (negoziabili, ma fino a un certo punto) che l’Europa ci impone e con una politica economica efficace anche se lenta a produrre effetti. In sintesi, compatibile con un governo decente, se non proprio buono.
Nel mondo «reale» le cose vanno diversamente e si manifestano con forza le ragioni che dai tempi dell’antica Grecia hanno indotto gran parte dei pensatori politici a diffidare della democrazia in generale e, più di recente, di un suffragio universale senza restrizioni: come impedire che il popolo, sedotto da agitatori e demagoghi, scelga dei pessimi governanti? Il problema non ha soluzioni stabili, se non quella di un lento processo di educazione alla democrazia o di rimedi epistemocratici parziali: quando condizioni esterne producono forti peggioramenti delle condizioni di vita e/o si diffonde la percezione di una grave inadeguatezza delle classi dirigenti non c’è educazione che tenga e possono ottenere grande successo proposte che poi condurrebbero a un peggioramento della situazione. Il problema non ha soluzioni perché sinora non si è trovato un modo diverso dalla democrazia rappresentativa e dalla libera concorrenza dei partiti per selezionare la classe dirigente politica: un modo altrettanto semplice e altrettanto congruente con i principî di fondo delle tradizioni liberaldemocratiche alle quali le Costituzioni dei nostri Paesi si ispirano. Il rischio di finire in una pseudo-democrazia, in una democrazia autoritaria, è molto forte.
Domanda italiana. Ma poi chi dice che la Lega o i 5 Stelle, nonostante i programmi che hanno presentato per ottenere consenso elettorale, non si rivelino governanti migliori di quelli che hanno sconfitto? Siamo proprio così soddisfatti dai risultati che questi hanno ottenuto? Insomma, lasciamoli sperimentare, poi giudicheranno i cittadini. Il guaio è che nella storia, a differenza delle scienze, non sono possibili esperimenti virtuali o reversibili: non è possibile tornare al punto di partenza e, sperimentando con un nuovo governo, giudicare in astratto qual è il migliore. Il decorso storico cambia irreversibilmente la situazione, e, alla fine dell’esperimento, il Paese può trovarsi in una situazione assai peggiore di quella da cui era partito.