(f. cundari) I giornali non hanno potuto fare a meno di notare la singolare omissione (di Meloni), mettendola in relazione con le precedenti scelte del governo, che sulla questione delle restrizioni all’uso delle armi occidentali non ha esitato a mettersi contro l’intera Unione europea, al fianco di Viktor Orbán (e di gran parte delle forze di opposizione, ahinoi, a cominciare dal Pd di Elly Schlein). Per di più, la ritirata di Meloni avviene proprio nelle ore in cui Joe Biden annunciava la decisione di rifornire l’Ucraina di armi a lungo raggio (sebbene, a quanto dicono i giornali, non l’avrebbe autorizzata a colpire in profondità in territorio russo) mentre Donald Trump gettava definitivamente la maschera definendo Zelensky «un piazzista» e Putin «un amico». In questa situazione, come scrive Ilario Lombardo sulla Stampa senza lesinare eufemismi, «Meloni è costretta a un equilibrismo che rischia di passare per ambiguità». Ma l’ambiguità veramente insopportabile è quella dei tanti sostenitori e commentatori che hanno fatto finta di bersi la favola della grande fermezza meloniana, della leader euro-atlantista che si muoveva addirittura nel solco di Mario Draghi, con tutte le sue solenni dichiarazioni di principio in difesa dell’Ucraina. Fingendo di dimenticare anni di campagne di Fratelli d’Italia a favore della Russia di Putin, i ripetuti interventi di Meloni alla Camera per chiedere di togliere le sanzioni contro Mosca decise dopo l’invasione della Crimea o il rapporto sempre caloroso con Orbán, il principale cavallo di Troia di Putin in Europa. È la ragione per cui, a voler essere onesti, bisogna riconoscere che scaricare l’Ucraina e riavvicinarsi a Trump sono scelte che non hanno oggi nulla di opportunistico e tanto meno di insincero. Quelle, semmai, erano le scelte precedenti.