Monorchio: Estate 1992, quando il paese stava per precipitare nel baratro

«L’Italia non aveva più soldi. Non avevamo niente. Niente». Andrea Monorchio smette di parlare, china il capo e chiude gli occhi. E in quel momento di raccoglimento rivede il baratro in cui stava per precipitare il Paese nell’estate del 1992. Per chi è Ragioniere generale dello Stato ed è chiamato a gestire le risorse dello Stato, il fallimento dello Stato rappresenta il fallimento di sé stesso. «E sapere che l’Italia rischiava di non poter pagare stipendi, pensioni e titoli pubblici era un’idea inaccettabile». Per tredici anni Monorchio ha guidato la Ragioneria generale, ed è inevitabile che i suoi ricordi si concentrino soprattutto su una delle notti più buie della Repubblica: il 10 luglio di trentadue anni fa, quando «il Paese fu a un passo dal default».

«Da settimane la lira era sotto attacco speculativo. I mercati ci avevano abbandonato. E i tedeschi completarono l’opera: la Bundesbank annunciò che non ci avrebbe più sostenuto. Carlo Azeglio Ciampi, che allora era governatore di Bankitalia, provò per mesi a difendere la permanenza della lira nel Sistema monetario europeo, prima di essere costretto a mollare». Monorchio rammenta le critiche che colpirono Ciampi e le respinge: «Lui impedì che lo Stato finisse in ginocchio. Nel frattempo il governo di Giuliano Amato si adoperò con una manovra da 92 mila miliardi di lire e con un decreto da 30 mila miliardi. Fu allora che si misero le mani nei risparmi dei cittadini, con un prelievo forzoso dai loro conti correnti».

Il famoso prelievo del sei per mille.
«Il sei per mille era il cappio messo al collo di un condannato prima dell’impiccagione. Un passaggio drammatico che provocò persino un conflitto tra istituzioni».

In che senso?
«La decisione fu assunta in un incontro tra il presidente del Consiglio e il ministro delle Finanze Giovanni Goria. Era notte fonda ed eravamo riuniti a Palazzo Chigi, alle prese con i numeri della manovra. Mancavano tra i sei e gli ottomila miliardi. A un certo punto Goria disse ad Amato: “Andiamo di là”. Tornarono dopo venti minuti e il premier disse ai ministri: “Potete andare a dormire. Non lei Monorchio”».

Amato le rivelò il progetto?
«No. La decisione del prelievo forzoso fu tenuta segreta per evidenti motivi: se fosse trapelato qualcosa il sistema sarebbe collassato. Nessuno fu informato: non i ministri, non il capo dello Stato e nemmeno il governatore di Bankitalia».

E come fu approvata la norma in Consiglio dei ministri?
«Amato semplicemente la saltò. Quando verranno desecretati i verbali della riunione, si vedrà che tra i provvedimenti citati quello del prelievo forzoso non è agli atti. Per non menzionarlo, il premier si trincerò dietro una sorta di scioglilingua e passò avanti. La decisione rimase segreta fino alla sua pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale».

E quando la misura fu ufficializzata?
«Il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che era solito chiamarmi ogni giorno, quella volta non chiamò. Ciampi invece…».

Ciampi?
«Andò su tutte le furie. Chiamò Amato ed ebbe con lui uno scontro verbale violento».

Ciampi che alza la voce con Amato?
«Tra i compiti del governatore di Bankitalia c’è anche quello di tutelare il risparmio. “La Repubblica tutela il risparmio”, è scritto nella Costituzione. E quale tutela aveva potuto garantire Ciampi, visto che nottetempo i risparmi dei cittadini erano stati colpiti dallo Stato? Per Amato fu dura resistere».

Lei era d’accordo con la misura?
«No».

Ritiene fosse evitabile?
«(Silenzio) Non avevamo niente. Niente (silenzio). Ci voleva coraggio a prendere una simile decisione, sapendo che il giorno dopo avresti avuto tutto il Paese contro. E così fu. I ministri, i partiti di maggioranza, quelli di opposizione. I sindacati. Tra le urla del governatore di Bankitalia e il silenzio del presidente della Repubblica. Ma l’Italia alla fine si salvò».

La tempesta non era stata improvvisa…
«Le nuvole avevano iniziato ad addensarsi negli anni Settanta. Fino ad allora il bilancio dello Stato chiudeva regolarmente con avanzi di cassa. Poi i governi presero a varare una serie di riforme che vennero finanziate di fatto senza copertura finanziaria. Si creò così lo zoccolo duro del debito pubblico, che si amplificò a dismisura con il sopraggiungere dell’inflazione a due cifre. E da quel momento il debito non si fermò più».

Ma lei era Ragioniere generale già da tre anni.
«Sono stato l’unico funzionario dello Stato a partecipare ai Consigli dei ministri, nonostante la legge imponga che le sedute siano segrete. Ero pupillo di Guido Carli, allora ministro del Tesoro. Un giorno volle che lo accompagnassi dal capo del governo, al quale chiese che io presenziassi alle riunioni per spiegare, se del caso, i dettagli più complicati della Finanziaria».

Chi era all’epoca il presidente del Consiglio?
«Giulio Andreotti, che era al suo sesto governo. Lui accolse la richiesta di Carli, mi portò nel salone del Consiglio e con quella vocina inconfondibile disse: “C’é qualcuno dei signori ministri che ha difficoltà se il Ragioniere generale dello Stato rimane con noi?”. Nessuno ebbe da obiettare. Da allora fui sempre presente: risolvevo contenziosi senza avere davanti a me tabelle o documenti, perché i numeri li ricordavo a memoria».

E conoscendo «i numeri a memoria» non vide avvicinarsi la tempesta?
«Durante l’ultimo governo Andreotti, il settimo, tenemmo un incontro al ministero del Tesoro. Era presente anche Mario Sarcinelli, che era il direttore generale del ministero. Entrambi sostenemmo la necessità di adottare una serie di misure molto forti per ridurre drasticamente la spesa, iniziando dalle pensioni. Propendevamo per una linea molto dura confidando nell’appoggio di Carli, che aveva la personalità, il prestigio e l’autorevolezza per farla valere. Ma…».

Ma la linea «molto dura» non passò.
«Ricordo che il sottosegretario alla presidenza, Nino Cristofori, intervenne per bloccarla. Cristofori, un andreottiano di ferro, era conosciuto come un politico che pensava solo a distribuire pensioni. E anche Paolo Cirino Pomicino, ministro del Bilancio, si fece sentire. Carli alla fine apprezzò i suggerimenti miei e di Sarcinelli, ma non se la sentì di varare quel pacchetto di misure. E provocò la reazione di Sarcinelli».

Cosa accadde?
«Sarcinelli aveva con Carli un rapporto confidenziale, al punto che lui poteva dirgli ciò che altri non potevano neppure pensare. Mario si inalberò. Disse a Carli: “Se lei non se la sente, si deve dimettere da ministro”. Ovviamente Carli era consapevole che il Paese sarebbe andato gambe all’aria se si fosse dimesso. D’Altronde, se un’autorità come Carli avesse lasciato con la motivazione che non riusciva a mantenere il controllo del bilancio pubblico…».

E Sarcinelli?
«Reagì duramente: “Se non si dimette lei, mi dimetto io”. Si alzò e andò via. Carli non fece una piega: ricevette la sua lettera di dimissioni, le accettò e a stretto giro nominò direttore generale del Tesoro Mario Draghi».

Finita la prima Repubblica, avere a che fare con la seconda deve esserle sembrata una passeggiata.
«Quando nel 1994 Silvio Berlusconi divenne presidente del Consiglio, Scalfaro mi chiamò perché temeva per la gestione degli affari di governo. Pensava che da solo Gianni Letta non avrebbe potuto fare tutto. Perciò accettai di dare una mano. Fui io a consigliare come ministro del Tesoro Lamberto Dini, che peraltro mi aveva chiesto di vederlo. “Ma in campo neutro”, mi disse: cioè lontano dal ministero del Tesoro e da Banca d’Italia. Lui mi chiese se ero in corsa per quel dicastero. “Non ne ho alcuna intenzione”, gli risposi. “Mi sento sollevato perché ho questa aspirazione”, commentò. Così andai da Gianni Letta e glielo riferii: nel pomeriggio Dini era già nella lista dei futuri ministri».

Ripercorrendo una corsa lunga tredici anni, c’è un personaggio che le viene in mente?
«(Sorride) Francesco Cossiga. Quando era capo dello Stato mi chiamava ogni domenica mattina al Quirinale, chiedendomi poi di restare a pranzo. Era un uomo solo. “Presidente è l’unico giorno che ho per stare in famiglia”, gli obiettavo. “Hai ragione”. Allora mi salutava e prima di congedarmi mi regalava mille lire».

Mille lire?
«Sì. Firmava la banconota e mi diceva: “È per il debito pubblico”».