Il guasto definito “molto raro” che ha subìto una cabina elettrica che alimenta gli impianti di circolazione di Roma ha avuto un impatto importante sul traffico ferroviario nella giornata di ieri, con diverse cancellazioni di treni e ritardi molto rilevanti. Si potrebbe dire che il guasto, per quanto grave, come ha ricordato l’amministratore delegato di Rfi Gianpiero Strisciuglio, sia stato risolto “velocemente”, dato che alle 08.30 il problema aveva trovato una soluzione. Ma è chiaro che i gravi ritardi accumulati hanno provocato enormi disagi che hanno avuto ripercussioni non solo sul nodo romano e non solo nella mattinata di ieri. Così come è chiaro che un guasto, per quanto raro, ha sempre delle cause. E per capire quali sono le cause occorre capire chi sono i responsabili. La problematica purtroppo è nota e riguarda il sovraccarico dei nodi urbani. Il nodo di Roma è il principale italiano e la stazione Termini, ieri al centro dei problemi, vede ogni giorno transitare circa 1.000 treni.
Di questi circa 300 sono ad alta velocità (un dato sorprendente è quello che negli ultimi cinque anni i treni regionali hanno avuto un incremento nella stazione di Termini, così come a Milano Centrale, mentre il numero di treni AV è rimasto sostanzialmente stabile). Il fatto di avere molto traffico ferroviario non aiuta a risolvere i problemi nei casi in cui si presenta l’emergenza e i nodi sono proprio il punto in cui il traffico è maggiore e dove si può venire a creare una congestione. Nei nodi, lo abbiamo già vissuto in passato, possono accadere problemi rilevanti: ad esempio nel 2023 nel nodo di Firenze deragliò un treno merci, provocando di fatto una suddivisione dell’Italia in due, bloccando anche i treni ad alta velocità. Tutto questo succede perché l’Italia ha un sistema misto, come la Germania, dove il traffico ferroviario non è separato per l’alta velocità rispetto alle altre tipologie di traffico. Fare i passanti, come è stato fatto a Bologna, aiuta a risolvere i problemi, ma è chiaro che queste opere infrastrutturali sono complesse e necessitano anni per essere completate. Bisogna dire che negli ultimi anni il gestore dell’infrastruttura ha spinto molto su questi investimenti, come per il passante di Firenze, ma è altresì chiaro che queste opere importanti necessitano di molti anni prima di venire alla luce. Un’altra soluzione che richiede tempo, ma è efficace, è la messa a terra degli investimenti per il sistema ERTMS (un sistema di gestione, controllo e protezione del traffico ferroviario e relativo segnalamento a bordo) che permetterà di avere sugli stessi binari più treni con un distanziamento inferiore. L’utilizzo di questa tecnologia darà la possibilità di eliminare diversi colli di bottiglia, ma non certo i problemi nei punti terminali come le stazioni Termini e Centrale. Per queste due stazioni c’è dunque da fare un discorso più operativo e in realtà, di breve periodo. Si devono prendere decisioni circa l’impatto socio-economico di ogni singolo treno e dare la priorità in queste stazioni a quei treni che hanno un “valore maggiore”. E’ chiaro che se dei treni regionali (che valgono oltre il 60 per cento del traffico a Termini) dovessero essere spostati dalle stazioni principali (ad esempio da Termini a Tiburtina) si ripresenterebbe un problema politico e contrattuale perché questi treni sono sotto contratto di pubblico servizio con le regioni. Ma qualcosa va fatto. Più in generale, il sistema ferroviario italiano sta vedendo grandissimi investimenti anche per il Pnrr, parliamo di oltre 25 miliardi di euro. Fare questi investimenti è necessario, ma la grande quantità di lavori provoca ulteriori problemi di ritardi e cancellazioni. I passeggeri se ne sono accorti questa estate quando i tempi di percorrenza tra Milano e Roma sono stati allungati per fare i lavori sulla rete, ma ogni giorno molti treni merci soffrono della chiusura o dei lavori sulla linea e provoca loro perdite per quasi 100 milioni di euro ogni anno. In definitiva c’è da tenere conto dal punto di partenza, il sistema misto italiano, e dei problemi attuali nei nodi e nelle stazioni, per cercare delle soluzioni operative per i passeggeri, e anche per le merci, che possano davvero migliorare l’esperienza di viaggio. E bisogna però avere chiaro anche il punto di arrivo. L’Italia rimane un benchmark internazionale per l’alta velocità grazie alla liberalizzazione che ha portato ad avere una frequenza dei treni elevatissima, una competizione sui prezzi e il mercato finora ha aiutato il settore ferroviario a essere più efficiente. Il governo, nella legge di Stabilità dello scorso anno, ha annunciato che la privatizzazione delle Ferrovie dello stato (oggi al 100 per cento del Mef) deve diventare realtà. Ferrovie controlla al 100 per cento la Rete ferroviaria italiana e non ci vuole molto a capire che aprire al mercato le Ferrovie non è un atto di lesa maestà come suggerito ieri dalla segretaria del Pd Elly Schlein (“Salvini non si occupa di fare funzionare le ferrovie, pensa solo a come venderle”) ma è al contrario il modo migliore per avere, anche in questo settore, maggiore efficienza e maggiore responsabilità. Occorre farlo con urgenza. Perché il populismo ferroviario, a destra e a sinistra, serve a fare rumore politico, ma non a risolvere i problemi.