Se è vero che i politici di un Paese assomigliano ai propri cittadini, lo stesso vale anche per le politiche che mettono in pratica. Non c’è forse esempio più lampante del sistema previdenziale italiano. L’età mediana in Italia ha raggiunto lo scorso anno i 48,4 anni, ovvero 3,9 più della media Ue, un record continentale. Ma, soprattutto, l’età mediana è cresciuta di quattro anni nell’ultimo decennio, ampliando ulteriormente il gap rispetto al resto d’Europa. Nonostante questo, abbiamo fatto come se nulla fosse e l’età media di pensionamento, di 64,2 anni nel 2023, è aumentata molto poco, considerando che nel 2012 era di 62,1 anni. È un dato di solo pochi mesi sotto quello europeo, di 63,6 anni, e sotto quello di Svezia, Paesi Bassi, Danimarca, Paesi in realtà più giovani del nostro.
Negli ultimi lustri, mentre l’invecchiamento accelerava, ci siamo concessi il lusso di tenere mantenere fermo, appena sopra i sessantatré anni, il momento del ritiro degli uomini, che costituiscono la maggioranza dei lavoratori. In particolare, sono soprattutto quelli più facoltosi a ricevere gli assegni più alti. Al contrario, l’età pensionabile delle donne è aumentata a un ritmo più veloce, raggiungendo i 64,83 anni, superando così quella dei colleghi maschi.
Il forte e improvviso incremento dei pensionamenti anticipati registrato dalla fine dello scorso decennio spiega in gran parte questi numeri. Se consideriamo il fondo dei lavoratori privati, il numero di pensionamenti è passato da poco più di 57mila nel 2014 a oltre 126mila nel 2019, raggiungendo i 133.500 nel 2021. Lo scorso anno si è registrata una flessione e il numero che è sceso a 107mila, riflettendo l’impatto ormai consolidato dei picchi precedenti.
Anche i ritiri per vecchiaia, che secondo le attuali regole avvengono a 67anni, sono aumentati, ma rimangono comunque inferiori a quelli anticipati, nonostante quest’ultimi avrebbero dovuto rappresentare, secondo lo spirito della riforma Fornero, la forma principale di pensionamento. Non è andata così. Nel 2018 e nel 2019 i pensionamenti anticipati sono stati più del doppio rispetto a quelli per vecchiaia. E negli anni successivi il gap è oscillato tra 20 e 40mila unità, ben superiore alle 12mila del 2014. Se nel 2014 e nel 2016 quelle anticipate costituivano meno del 30% delle pensioni decorrenti, successivamente non sono mai scese al di sotto di questa soglia.
In dieci anni, dal 2014 al 2024, gli importi alla decorrenza delle pensioni anticipate sono aumentati di 225,3 euro, mentre quelli delle pensioni di vecchiaia di 135, nonostante l’età di ritiro per i percettori di queste ultime sia aumentata di 2,4 anni, rispetto ai 1,5 anni degli anticipatari. Gli assegni di reversibilità, invece, hanno registrato un incremento ancora più significativo, nonostante il loro peso complessivo sia diminuito nel tempo.
Perché tutto questo? Per l’impatto delle riforme che volevano «sconfiggere» la riforma Fornero. Alle consuete forme di anticipo, ovvero l’uscita con 41 o 42 anni e 10 mesi di contributi, in base al genere, o a quella prevista per i lavoratori precoci, si è aggiunta nel 2019 la ben nota Quota Cento, per coloro che avessero 62 anni di età e 38 di contributi. Questa è stata seguita nel 2021 da Quota Centodue, che richiedeva 64 anni di età e sempre 38 di contributi, e infine da Quota Centotrè, che consentiva l’uscita con 62 anni, ma necessitava di 41 anni di versamenti. A questi strumenti si devono aggiungere altre opzioni, come Opzione Donna, l’isopensione, i contratti di espansione e l’Ape sociale.
Secondo l’Inps, però, l’impennata dei pensionamenti anticipati nel 2019 è stata principalmente causata dalla creazione del governo giallo-verde e dall’introduzione della Quota Cento, che quell’anno da sola ha generato più di un quarto dei pensionamenti totali e più di un quinto nel 2020 e nel 2021. Le misure successive, come Quota Centodue e Quota Centotrè, hanno avuto un impatto molto inferiore. Opzione Donna, poi, negli stessi anni ha rappresentato il quattordici per cento delle uscite anticipate delle lavoratrici.
Sono però stati gli uomini, come si diceva, i protagonisti del fenomeno. Nel loro caso, sempre se guardiamo ai dipendenti, l’incidenza dei ritiri con meno di 67 anni è sempre stata più che doppia di quelli per vecchiaia, con l’eccezione del 2022 e 2023. Le pensioni anticipate hanno costituito quasi sempre oltre il 45% delle pensioni in pagamento, superando il 60% nel 2019. Nel caso delle donne, invece, le due tipologie di uscita sono quasi sempre equivalenti.
È ovvio, nel momento in cui le condizioni per usufruire delle varie forme di anticipo sono legate agli anni di lavoro e di contributi, che sono favoriti coloro che hanno carriere più lunghe e con meno interruzioni, ovvero gli uomini. E naturalmente sono indotti ad usarle coloro che, nonostante le decurtazioni, avrebbero comunque assegni soddisfacenti.
Anche per questo l’adesione è stata maggiore al nord, in senso assoluto e relativo. Qui, a differenza che nel centro e nel mezzogiorno, le pensioni decorrenti anticipate sono sempre state più del doppio di quelle di vecchiaia, anche nel 2023, e tra il 2019 e il 2021 anche più del triplo. Per esempio, al nord ovest, tra i pensionandi dipendenti nel 2019 sono state 43.900 contro 7.300, nel 2023 43.300 contro 21.200.
È per favorire alcuni uomini sessantenni più benestanti del nord che la spesa previdenziale è rimasta altissima, al 16,3 per cento del Pil, contro una media del 12,9 per cento. Per distruggere almeno ideologicamente la riforma Fornero, anche se solo provvisoriamente, come succede spesso in un Paese come l’Italia in cui è tutto orientato al brevissimo periodo. Esattamente come i sessantenni ed i settantenni azzimati che fingono che il tempo non passi, finché, però, passa. Abbiamo bloccato, perlomeno per gli uomini, l’età media di uscita per qualche anno, assecondando l’ipocrisia di un mondo sempre più giovanilista, in cui i sessanta sono i nuovi cinquanta, in cui non è mai troppo tardi per nulla: per innamorarsi, per avere figli, per comprare la moto, per girare il mondo. Per nulla, tranne che per lavorare.
I nodi però vengono al pettine, non sarà possibile fare lo stesso in futuro, non è possibile già ora in realtà. Ma a subire le conseguenze, in termini di prolungamento dell’età lavorativa, dell’illusione di questi anni ovviamente non saranno coloro che ne hanno beneficiato, ma quanti ne sono stati vittime, che sono stati illusi, appunto, che ci sarà sempre una leggina, una Quota Cento anche per loro.