Il rapporto tra calcio e criminalità organizzata esiste da sempre e da sempre è uno degli spazi meno indagati e dibattuti.
(…) La procura di Milano si è precipitata ad arrestare i dirigenti delle curve di Inter e Milan perché il rischio era la faida. Le parole della suocera di Bellocco rivolte a Berto, fratello dell’assassinato: «Devi combinare una strage».
Uccidere Bellocco è una dichiarazione di guerra (guerra che è stata solo rinviata e si farà) il rischio che le esecuzioni potessero avvenire durante una partita, fuori dallo stadio, era molto concreto. La procura ha quindi velocizzato e arrestato individui su cui stava da tempo indagando. Lo stupore nato dopo gli arresti dei capi ultrà interisti e milanisti è ingiustificato, le organizzazioni mafiose sono parte del calcio italiano (non solo) e sono da sempre interlocutrici dei club.
Questa volta però qualcosa è cambiato, l’omicidio di Antonio Bellocco sta mostrando una nuova praxis mafiosa, l’erede di un importantissimo sodalizio ucciso da Andrea Beretta, capo della Curva Nord dell’Inter e mediocre criminalotto, tuttofare sino al suo assassinio di un altro capo ultrà, Vittorio Boiocchi. Impensabile una dinamica così, Beretta che lavorava al servizio di quello che i magistrati considerano un sodalizio narcocriminale, osa uccidere l’erede di un gruppo dell’aristocrazia ‘ndranghetista. Come mai?
Bellocco infatti voleva mangiarsi il negozio «We Are Milano» di Beretta che vendeva merchandising dell’Inter ma soprattutto avere il controllo diretto di tutta la filiera.
Le mafie hanno allevato gli ultrà, li hanno usati come agenti del narcotraffico e «dipendenti», lasciandoli in una sorta di autonomia. La droga la fornivano i clan, così come le magliette e le sciarpe, le mura dei negozi, insomma le organizzazioni permettevano un accordo tra liberi imprenditori: fornitori e distributori.
Ora non è più così. U’Nanu era salito a Milano con un intento preciso, prendersi la gestione della filiera dell’Inter e mettere a stipendio gli ultrà togliendoli dai ruoli decisionali, motivo? Gli ultrà non sono mafiosi anche quando collaborano con le organizzazioni, non sono uomini d’onore. Indisciplinati, spesso esposti alla tossicodipendenza e all’alcolismo, inutilmente bellicosi, da sempre legati all’estrema destra politica, troppo esposti a facili indagini e arresti.
Ora gli affari sono seri, i club sempre più succubi dei gruppi organizzati, è il tempo che le mafie gestiscano gli affari. Il legame è essenziale, non esisterebbe nessun ordine negli stadi se non ci fossero le organizzazioni criminali, la serenità di una squadra verrebbe subito minata se gli ultrà organizzati decidessero di bersagliare i calciatori, sotto loro ricatto un’intera stagione fallirebbe. E allora non resta che negoziare, permettere di fargli guadagnare, sono azionisti occulti. Il ricatto su (quasi) tutti i club, dai grandi ai piccoli, è continuo. Le società non denunciano quasi mai.
Anzi, non trovare interlocutori può portare al blocco delle loro attività. Juventus, Inter, Milan da anni sanno benissimo che la ‘ndrangheta e i loro ultrà sono legati, ma ancor più sanno che narcotraffico e calcio sono mercati saldati. Nel 2014 la Juventus ebbe pressioni per assegnare l’appalto dei lavori edilizi per il nuovo stadio a costruttori vicini alle ‘ndrine, Andrea Agnelli, non cedette ma in un’intercettazione, spaventato, disse al manager della sicurezza Alessandro D’Angelo riguardo al capo ultrà Lorenzo Grancini, leader dei Vikings: «Il problema è che ha ucciso della gente». Il suo amico: «Ha mandato a uccidere della gente».
Il business della droga Questo è il clima e poco è cambiato. Parcheggi, panini, biglietti (non solo bagarinaggio), pensate davvero sia questo il business degli ultrà? È solo un ombrello, il vero business è la droga. Cocaina, eroina, ecstasy, hashish e marjuana. I narcosoldi li riciclano nelle attività collaterali.
Ecco perché provarono a prendersi la mensa dello stadio juventino o vogliono gestire i negozi. Riciclaggio. Non è da lì che guadagnano. Il business primo resta la droga. Il nostro Paese è leader nel settore del narcotraffico. Ricordate le parole del boss colombiano El Mono Mancuso? «La coca è una pianta strana che ha le foglie in Sudamerica e le radici in Italia». E molte di queste radici sono negli stadi.
Ma come, penserete, gli stadi così controllati dalla polizia?
Ogni stadio è un grande mercato di droga. Ma pur guadagnando molto non è questo il fulcro del business. I capi ultrà sono diventati narcotrafficanti per il trasporto. I bus di tifosi che viaggiano per mezza Italia, spesso scortati per evitare scontri con altri tifosi, non di rado portano borsoni interi di droga. I controlli (quando riescono) sono su petardi e spranghe, il resto passa. Quando girano per le strade nessuno può controllare né monitorare e in quell’occasione avvengono gli scambi. In quale altra situazione hai droga scortata dalla polizia? Solo durante le partite.
Più volte quando scattano i (rari) controlli, rari perché partirebbero le insurrezioni dei tifosi, si trovano ingenti quantità di droga. Persino gli scontri spesso sono dovuti ad accordi mancati, la rabbia dei tifosi dell’Eintracht, secondo alcuni, sarebbe dovuta proprio a partite di droga scontate previste che i clan napoletani non avrebbero dato.
Gli scontri portano troppa polizia quindi quando avvengono è sempre per volontà dei capi. Nel giugno 2018 Luca Lucci, leader della Curva Sud del Milan, è arrestato: si dichiarò colpevole di traffico di stupefacenti, riceveva roba dalla Spagna dai clan albanesi e fu condannato a 18 mesi. Lucci venne arrestato con Massimo Mandelli, capo degli steward volontari di Inter-Milan e candidato di CasaPound.
La scelta del Napoli E il Napoli? Ha visto la propria tifoseria per decenni espressione dei clan di camorra. Un intero gruppo ultrà, «Teste Matte», è stato identificato come organizzazione dedita al narcotraffico. Il boss Giuseppe Misso vent’anni fa impose che i tifosi della Masseria Cardone dovessero abbandonare la Curva A perché le famiglie non si erano accordate. Il mondo intero nel 2014 vide Genny a’ Carogna (oggi collaboratore di giustizia) decidere se far proseguire o no la finale con la Fiorentina. Genny a’ Carogna (Gennaro De Tommaso) era un narcotrafficante.
Il Napoli ha avuto organizzazioni di tifosi dirette estensioni dei clan, De Laurentiis aveva solo due scelte: o farsi condizionare o contrastarli. Ha iniziato un progressivo allontanamento degli ultrà, non ha temuto il conflitto, ha cercato di gestire i posti allo stadio sottraendoli agli ultrà, ha provato a sottrarre spazi economici agli ultrà.
Ha pagato un prezzo, i giocatori spesso sono stati bersagliati da furti. Recentemente sembra esserci stata pace tra una parte degli ultrà e De Laurentiis che ha fatto insospettire come se il presidente avesse ceduto ai gruppi ultrà, ma di certo tra le tante società quella del Napoli, che per decenni ha subito pressioni e minacce dei clan, è riuscita a fare il lavoro migliore (ancora lontano dall’aver risolto il problema).
L’influenza sui vertici Le organizzazioni mafiose sono nel calcio da quarant’anni, ma sono arrivate ai vertici delle squadre? Abbiamo moltissime prove di riciclaggi (o tentativi) verso squadre piccole — Crotone, Albanova (Casal di Principe), Juve Stabia — ma nessuna inchiesta è riuscita ad arrivare ai vertici dimostrando l’entrata delle mafie tra gli azionisti.
Entrare con i propri capitali dentro una squadra è rischioso, preferiscono condizionarla, prenderne intere filiere in subappalto. Del resto quando la camorra tentò di comprare la Lazio per riciclare i milioni che teneva fermi in Ungheria non fu un buon affare, scattarono gli arresti. Il calcio italiano è malato ma non preoccupatevi, passata una settimana dalla vicenda, non se ne parlerà più e potremo tornare tutti a divertirci.