Andrea Minuz/L’antisemitismo e’ diventato glamour e pop

(aldo grasso) Sette ottobre 2023, intorno alle 6.30 ora locale, le sirene antiaeree risuonano a Gerusalemme avvertendo i cittadini che il Paese è sotto attacco. Hamas ha appena annunciato l’inizio dell’operazione «Alluvione Al-Aqsa»: oltre 5.000 razzi dalla Striscia di Gaza verso Israele. Migliaia di terroristi di Hamas sciamano da Gaza: prendono d’assalto il festival Supernova, dove centinaia di ragazzi si sono ritrovati a ballare, i kibbutz al confine e le postazioni militari. Saranno 1163 le vittime. Tra distruzione e morte, vengono rapite 251 persone, tra civili e soldati. Alcuni dei rapiti vengono uccisi all’istante e i loro corpi portati nella Striscia, per un futuro scambio con detenuti palestinesi. I miliziani filmano tutto. Enrico Mentana, in una coraggiosa serata da servizio pubblico, ha condotto lo Speciale TgLa7 dal titolo «L’orrore di un anno», ripercorrendo il massacro di quel giorno e riflettendo su dodici mesi di orrore. Nel documentario, realizzato da Silvia Brasca e Pina Debbi, viene ricostruito minuto per minuto l’attacco da parte di Hamas ai diversi siti israeliani. Sono immagini agghiaccianti, crudeli, terrorizzanti.

(frasco) Per chi, e sono la maggior parte, non avesse ancora visto queste immagini agghiaccianti, e dunque stanno con i palestinesi contro Israele, consiglio la lettura di questo pezzo di Andrea Minuz che spiega come il classico antisemitismo sia diventato in un anno glamour, pop, di tendenza.

Stralci da Il Foglio del 7/10/24

(…) Il fatto è che dal 7 ottobre il più classico antisemitismo che accompagna la storia degli ebrei dalla notte dei tempi si è trasformato in qualcosa di nuovo. Tanto per cominciare non sembra più così riprovevole. E’ diventato pop, di tendenza, glamour. Fa sentire dalla parte giusta. Accende i riflettori. Fa brillare nel maestoso discorso dell’Impegno: libri, conferenze, film, performance, premi, appelli umanitari, al cui fondo c’è sempre una trasformazione del terrorista di Hamas o Hezbollah in “eroe culturale”. Un antisemitismo non più inaccettabile e vergognoso, ma sentimento “complesso” e che se ben “contestualizzato” può essere condiviso anche a tavola, tra persone educate, sensibili e naturalmente progressiste. Dopo la doverosa premessa, “non sono antisemita ma antisionista”, si squadernerà il catalogo di “apartheid”, “Netanyahu criminale di guerra”, “Gaza prigione a cielo aperto”, “75 anni di occupazione coloniale”, “stop al genocidio” e al televoto.

Il vecchio stereotipo dell’ebreo vittima è rovesciato nel suo opposto. Un ebreo carnefice, nazista, colonialista, assetato del sangue dei bambini di Gaza. Vittima e carnefice sono due modi speculari di azzerare la concretezza umana degli ebrei (cui volendo si può aggiunge lo stereotipo home-made dell’“ebreo invincibile guerriero” sfoderato da Netanyahu all’Onu, al momento con qualche ragione dalla sua). Un antisemitismo non più legato a nicchie di odiatori seriali e repressi, alle gesta folkloristiche di qualche feccia nazista da stadio. Le bandiere di Hezbollah che sventolano a Roma e Milano, il “minuto di silenzio” per Hassan Nasrallah, guida spirituale, amico, fratello, “aiutante di deboli e disabili” sono ormai parte del paesaggio. Un repertorio già classico alle spalle e un pantheon di professionisti dell’antisemitismo: volenterosi strappatori di volantini degli ostaggi, professori di Columbia sdilinquiti per la strage “awesome” e “outstanding” di Hamas, come un film da Oscar, miglior pogrom dal 1945, la giovane leader dell’occupazione del campus che reclama “aiuti umanitari di base”, “l’obbligo di garantire cibo e acqua”, in una metaparodia della protesta, un momento davvero molto Monty Python, superato però dall’Iran messo a capo dei diritti umani all’Onu. Lo choc per il 7 ottobre è durato niente. Poi tutto un happening molto fusion di antagonisti, pacifisti, fasciosfera, attori, registi, scrittori militanti, “rapper per Gaza”, nuovi leninisti e “professoresse democratiche”, chi sfilando sul red carpet, chi dormendo in tenda all’università, promuovendo tutto un pulviscolo di nicchie “a tema”: antropolog* per la Palestina, transgender contro “!srae l*”, “veganesimo intersezionale in Palestina”, “Animal Rights Activists for a free Palestine”, “fatties for a Free Palestine”, creati dopo aver scoperto una macchinazione ai loro danni (“mancano indumenti di protesta oversize”), o gli acrobatici “queers for Gaza”, città dove, assicura la filosofa Judith Butler, c’è un notevole movimento Lgbtq+, chissà, forse nei tunnel. Poi il vasto campo del boicottaggio. La battaglia contro i datteri “frutto dell’apartheid”, la sospensione degli accordi con le università, le liste di proscrizione: Puma “complice di apartheid”, Carrefour “facilitatore di genocidio”, un cavo sottomarino della Siemens che “collega le colonie illegali israeliane all’Europa”, Marvel col prossimo “Capitan America” che “personifica l’Israele dell’apartheid”, Airbnb, Expedia, Booking che “offrono affitti in case costruite su terra palestinese rubata”, ed è subito overcolonization.

Bisogna riconoscere un certo scatenamento della fantasia. Bisogna dare atto di un universo narrativo epico e potente, come nelle grandi saghe fantasy, la Morte Nera Sionista contro i “ribelli della resistenza”, Hamas, Hezbollah, i pasdaran, che allestiscono per noi un futuro di jihad e libertà. Ci vorrebbe un Tom Wolfe per riscrivere “Radical chic” coi capi di Hamas al posto delle Black Panthers. Una cena in piedi con gli houthi in un grande appartamento di Upper East Side, tra vassoi di fingerfood libanese e selfie col mitra. Scriveva Tom Wolfe: “A lungo andare gli storici considereranno tutta l’esperienza della Nuova Sinistra non tanto come un episodio politico quanto come un fenomeno religioso mimetizzato da equipaggiamento semimilitare e discorsi da guerriglia”. Corsi, ricorsi, eterni ritorni.

Gli “Area” dedicavano una canzone a “Settembre nero”, l’organizzazione armata palestinese che ha avuto il suo exploit alle Olimpiadi del ‘72. Arafat era un nuovo Che Guevara. Divenne poi anche l’unico premio Nobel per la Pace a girare sempre armato con la pistola nella fondina (godendo adesso di arioso “lungomare Arafat” a Palermo, inaugurato da un commosso Leoluca Orlando qualche anno fa). Ma a un anno dagli attentati di Monaco avremmo faticato a immaginare manifestazioni e sit-in in tutto il mondo per celebrare i terroristi. Avremmo faticato ad accettare la glorificazione di un massacro. Se lo scopo di una manifestazione è “mandare un messaggio”, il messaggio di questi giorni è chiaro: celebrare la strage di Hamas. Rivendicare la morte di trecentosessantaquattro ragazzi provenienti da tutto il mondo trucidati mentre ballavano a un Festival di musica elettronica in un trip di pace, amore e techno. Esaltare il massacro dei kibbutz Be’eri o Kfar Aza, cose che non avevo mai visto neanche nei film più efferati sui crimini nazisti. Non ci sono sfumature. Non siamo ai “compagni che sbagliano” ma all’esaltazione dello stupro, delle mutilazioni, di ragazze insanguinate caricate sui pick-up e date in pasto a una folla in delirio, di genitori ammazzati davanti ai bambini e di bambini uccisi a sangue freddo nelle loro camerette (“Glory to our martyrs” proiettato di notte sulle facciate della Georgetown University a Washington, il 24 ottobre, una di quelle scene che archiviai subito come “fake”, ma ero ingenuo, altro che “fake”, non avevamo visto ancora nulla).

Hamas sapeva che nell’opinione pubblica occidentale la causa di questa guerra sarebbe presto scemata, rimossa, dimenticata, lasciando sotto i riflettori solo le operazioni militari di Israele, le macerie di Gaza, lo strazio per le vittime civili, purché di matrice israeliana. Come i missili e i razzi: si vedono solo quando vanno da Israele in Libano, mai nella traiettoria opposta. Però neanche Hamas immaginava la facilità e la rapidità con cui si è messa in moto la macchina antisraeliana. Gridare al megafono “morte a Israele” il giorno in cui 1.200 ebrei sono stati massacrati e altri 251 rapiti e ficcati nei tunnel di Gaza è come andare a piazza del Popolo l’11 settembre con le bandiere di Al Qaeda, o il 27 gennaio vestiti da SS, ballando sui carri con trombette e DJ set, “from the river to the Reich”, ma non diamo troppe idee, per carità. Ma neanche l’abiezione perde il senso dell’assurdo: pochi giorni fa al Salone del Gusto di Torino irruzione dei ProPal per protestare contro Israele tra gli stand della manifestazione: “Il progetto culturale sionista”, spiegavano gli organizzatori, “ha creato una cultura a tavolino presentando humus e falafel come ricette tradizionali israeliane”. Quando non li fanno morire di fame, gli fregano le ricette. Maledetto gastrosionismo.

Come già con l’orrenda prosa ministerial-leninista delle Br, anche l’antisionismo di piazza pone un tema linguistico. C’è di tutto: dalla più classica versificazione postmarxista (“fare della solidarietà internazionalista un’arma per rovesciare i complici e gli alleati dei sionisti”) allo scintillante lessico della “social justice” (“creare un terreno di lotte intersezionali per la liberazione umana e animale, dall’oppressione colonialista, dalla violenza sionista e dalla devastazione ambientale”). Fate caso al modo compiaciuto con cui dicono “entità sionista”, “agente sionista”. Come in una versione jihadista dei vecchi “Urania” o del multiverso Marvel con le sue “entità cosmiche” che “esistono sin dagli albori dell’universo stesso” (ed è subito “Protocollo dei Savi di Sion”). Penso che si sovrastimi il peso dell’ideologia, perché qui prima di tutto è saltato in aria il linguaggio. Le parole non dicono più nulla. Se chiamiamo “negazionista” chi non è d’accordo con noi, se dire a una donna “guidi molto bene” è una “microaggressione”, se nei premi letterari si invoca la “meritocrazia”, allora va bene anche il ritornello sul “genocidio”. Va bene la sua presa immediata sui cuori e le menti umanitarie, ci vuole un parolone per far risuonare meglio la ripulsa morale. E lasciando stare che sarebbe anche l’unico “annientamento pianificato” di un popolo che da anni mantiene uno dei più alti tassi di crescita demografica al mondo, e quindi un genocidio quantomeno disfunzionale, c’è in questo slittamento del termine da oggetto del diritto internazionale a categoria psichica un ovvio uso tattico: ribaltare in una parola sola Gaza in Auschwitz. I vecchi oppressi in sadici oppressori. Gli eredi della Shoah nei nuovi artefici del “Male assoluto”.

E’ invece sicuro che i massacri del 7 ottobre non sono riconducibili a nessuna guerra di liberazione o alla logica classica degli attentati, ma a un rito religioso: la purificazione della terra dagli ebrei. Un format millenario. Le modalità di quel pogrom, il modo in cui è state filmato e celebrato, la folla in estasi tra i cadaveri mutilati, tutto è riconducibile non alla guerra ma alla catarsi e agli atti di purificazione religiosa.

E’ persino inutile ricordare che con tutti i soldi ricevuti dalla comunità internazionale in questi anni, Gaza sarebbe dovuta essere più ricca di Dubai, e con una metropolitana più grande di quella di Londra al posto di quei cinquecento chilometri di tunnel da usare per gli attentati. Oppure che l’azione di Hamas è arrivata nel mezzo di un accordo ormai a buon punto tra Israele e Arabia Saudita (o che l’11 settembre 2001 era l’anniversario degli accordi di Camp David). Non serve nemmeno rievocare qui la lunga storia di trattative e negoziati fatti saltare dal mondo arabo, perché lo scopo non è mai la liberazione della Palestina o la pace ma la distruzione di Israele. Non c’era calcolo politico nel 7 ottobre, se non quello di scalare posizioni nella hit-parade del jihad internazionale, scaldare i cuori degli odiatori di Israele, ricordare al mondo che volendo, con qualche sforzo in più, si potrebbe cancellare per sempre Israele dalla cartina geografica. Hamas sapeva quale sarebbe stata la reazione scontata di Israele, ma del destino del popolo palestinese, parafulmine per il jihad e ricatto per l’occidente, non gliene frega nulla. Anche Hitler, a guerra ormai persa, non si preoccupava com’è noto dei bombardamenti sulla Germania. Si concentrava solo sulla endsolung del problema ebraico. Purificare l’Europa dagli ebrei era più importante che limitare i danni, salvare il paese, i civili. Ma a differenza dei nazisti che provarono a tenere tutto segreto e a cancellare le prove dello sterminio, Hamas si mette in mostra, sotto i riflettori, agli occhi del mondo intero, confida nell’applauso. Un pogrom in mondovisione.

Per cui uno vorrebbe anche respingere i toni da Far West, la logica buoni e cattivi, il Bene e il Male, alzare magari il sopracciglio quando Netanyahu entra all’Onu come John Wayne in un saloon. Vorrebbe rifiutare la polarizzazione da social, per chi tifi, pro questo, anti quell’altro, come un derby, due popoli, “due stadi”. Ma proprio non si può restare sempre equidistanti. E’ vero, come dice Amos Oz, che il nemico del presente è il fanatismo, figura universale imbestialita anche da vent’anni di risse sui social. Ma è anche insopportabile la complicità culturale, l’ammiccamento, la giustificazione, il relativismo di chi mette sullo stesso piano i morti dei bombardamenti e le scatole di chiodi conficcate da Hamas nelle vagine delle ragazze israeliane prima di sparargli in testa. Il vantaggio di avere due guerre in contemporanea sui social è che si può toccare con mano la sproporzione: ripulsa collettiva per le azioni di guerra israeliane e scarso interesse per le bombe di Putin su un ospedale pediatrico.

I nostri distinguo, le lacrime umanitarie e tutta l’ipocrisia occidentale si scontrano con Mia Schem, ventunenne rapita al Festival Supernova, liberata due mesi dopo, che davanti alle telecamere dice: “Non ci sono civili innocenti a Gaza, nemmeno uno”. Una frase che mi risuona ancora in testa. Una frase difficile da accettare. Una frase che “farà discutere” avevano scritto i giornali, e che invece è proprio morta lì, perché è complicata, scivolosa, meglio non approfondire troppo, la ragazza sarà stata sotto choc, poveretta. Una frase che qualche problema lo pone. Perché in una società completamente militarizzata, soggiogata da Hamas, votata alla distruzione di Israele, coi bambini che alle recite mettono in scena lo sgozzamento degli ebrei, e giornalisti di Al Jazeera col doppio lavoro, inviati di guerra e comandanti di Hamas, il concetto di “civile innocente” un pochino si adombra.

Quattromila docenti universitari che firmano un appello per interrompere ogni forma di collaborazione con gli atenei israeliani non sono tutto il mondo accademico, ma sono tanti. I rettori che quest’anno hanno ceduto ai collettivi pongono anche qui, dopo la bancarotta di Harvard, un problema di imbarazzo (ma su Harvard avevamo già qualche dubbio quando invitarono Di Maio). Ha ragione Pierluigi Battista, “i nemici di Israele non sono mai amici della libertà” (leggetevi “La nuova caccia all’ebreo”). E nel Grande Romanzo Illiberale in cui sguazza dal liceo al dottorato lo Studente Collettivo la storia si srotola tra oppressori e oppressi, il colonialismo è solo atrocità, il nostro mondo è irredimibile e va punito dalla triplice intesa: antiamericanismo, antisionismo, anticapitalismo. Le complicate vicende dell’umanità sono un elenco di barricate e rivoluzioni mancate o fallite, oppure trionfanti ma poi applicate male perché “non erano vere rivoluzioni”. Non c’è spazio per una cultura antitotalitaria. Figuriamoci cosa frega a questi dell’“unica democrazia del medio oriente”. Anche la geografia se la passa male. Battista cita un sondaggio in cui si chiedeva agli studenti quali fossero il mare e il fiume del fatidico ritornello delle piazze, “from the river to the sea”. Non lo sa quasi nessuno (“Dal Nilo al Caspio”, “Dall’Eufrate al Mar Rosso” e un magnifico, “Dal fiume Alcantara al Mar Mediterraneo”). Alla Sapienza, il collettivo di Lettere se l’è presa col Dipartimento di Scienze dell’Antichità perché supporta la “prassi archeologica sionista da quando nel 1967 fu scavato il primo tunnel a Gerusalemme Est”. Scavi archeologici ovviamente illegali, “metodologicamente errati” e che “causano danni strutturali a edifici pubblici e privati della popolazione palestinese”. E io trovo davvero magnifico riuscire a scrivere tutto questo dopo aver visto i cinquecento chilometri di tunnel di Hamas, che a questo punto presumo siano “a norma”, con benedizione delle sovrintendenze.