Riuscire a perdere in Liguria, come ha fatto ieri il centrosinistra, con il principale avversario, il presidente uscente, prima ai domiciliari e poi messo definitivamente fuori gioco anche dalla scelta del patteggiamento, e dopo due anni di governo Meloni, è un segnale politico di valore nazionale che non è possibile sottovalutare. Ma che andrebbe letto nel più ampio contesto delle scelte compiute dal Pd sin dalle primarie del 2019, quelle vinte da Nicola Zingaretti. Sono passati infatti quasi sei anni, due legislature, due congressi e ben tre segretari da quando il gruppo dirigente del Pd ha scelto la strada dell’alleanza a ogni costo con il Movimento 5 stelle, insieme causa e conseguenza dell’abiura di quanto lo stesso Pd (e il 90 per cento di quel medesimo gruppo dirigente) aveva detto, fatto o anche solo pensato durante la stagione di Matteo Renzi. Renziani e antirenziani rappresentano in un certo senso lo ying e lo yang della lunga stagione populista della sinistra italiana, ed escono entrambi ridimensionati dal voto. Anche se Italia viva, per la verità, era stata pesantemente ridimensionata già all’ingresso, avendo cominciato la campagna elettorale dentro la giunta genovese del sindaco Marco Bucci, candidato del centrodestra alla Regione, e avendola finita fuori sia dalla giunta comunale, per sua scelta, sia dalla coalizione di centrosinistra, per scelta di Giusepppe Conte. Con l’inevitabile rimpallo di responsabilità tra gli uni e gli altri.
Ma è l’intera strategia inaugurata dal Pd nel 2019 che mostra, ancora una volta, tutti i suoi limiti. Tanto che si fa prima a dire dove ha funzionato – in Sardegna – che a fare l’elenco di tutte le elezioni perdute, comprese quelle politiche del 2022 in cui Enrico Letta e tutto il resto del gruppo dirigente, dopo essersi incomprensibilmente incaponito sulla stessa identica linea che aveva portato Zingaretti alle dimissioni, ha dovuto arrendersi all’impossibilità della propria strategia, finendo per correre con una minicoalizione priva sia dei cinquestelle sia dei centristi, per giunta dopo avere giocato di sponda proprio con Meloni (che ancora ringrazia) sulla legge elettorale e lo schema maggioritario-bipolare. Il vero capolavoro di quel gruppo dirigente è stato però riuscire a rovesciare pure quella sconfitta su Renzi e i renziani, come se il congresso del 2019 lo avessero vinto loro, e non fossero invece usciti persino dal partito. Ma soprattutto nel presentare Elly Schlein – che proprio Letta aveva riportato nel Pd, assieme ai bersaniani di Articolo Uno, e schierato in prima linea nella battaglia elettorale – come la carta del rinnovamento, anzi della rivoluzione (rivoluzione guidata, come sempre, da Dario Franceschini). Il vero problema, che si continua a rimuovere, non è però il lungo elenco delle sconfitte elettorali, ma il ben più lungo e pesante elenco dei cedimenti politici, culturali e persino costituzionali, di merito e di principio, che hanno accompagnato questo lento scivolamento del Partito democratico nelle braccia del populismo antipolitico. Una linea che ancora oggi finisce per spuntare tutti i suoi argomenti contro lo stesso populismo meloniano. Come ad esempio, per dirne solo una, il disastro prodotto sui conti pubblici con il super bonus, e la conseguente insostenibile ipocrisia di tutte le polemiche sui tagli alla sanità o a ogni altro settore. Il problema insomma non sono le alleanze, che si possono fare o disfare in funzione della propria linea politica e delle occasioni. Il problema, al contrario, è proprio la linea politica, che in un partito degno di questo nome non dovrebbe mai ridursi a una semplice funzione delle alleanze, o di presunte occasioni, per di più assai mal calcolate.