Il voto in Liguria hanno smentito una convinzione diffusa, e cioè che le elezioni sarebbero state decise a Genova: vincere nel capoluogo, che con 800 mila abitanti rappresenta oltre la metà della popolazione regionale (1,5 milioni), avrebbe garantito la vittoria in Liguria. Così non è andata. Andrea Orlando, il candidato del centrosinistra, ha superato Marco Bucci di 8 punti (oltre 18 mila voti) nel capoluogo eppure ha perso lo stesso.
La candidatura del sindaco di Genova è stata comunque determinante perché, grazie a Bucci, a Genova la destra ha più che dimezzato il gap con la sinistra che alle europee di pochi mesi fa era di 20 punti. Ma in generale, la destra ha limitato i danni in città e recuperato lo svantaggio in provincia (ad esempio in Tigullio). Orlando ha vinto anche a Savona e La Spezia, e pure in questi casi Bucci ha recuperato nei comuni più piccoli delle due province e, infine, ha staccato di 16 mila voti il rivale nella provincia di Imperia, che si è rivelata determinante.
Alla fine la provincia è stata più decisiva della città. E se questa dinamica è stata vera per la Liguria, dove il peso politico di Genova è enorme, è tanto più vera per il resto del paese. Le elezioni si vincono nei comuni medi e piccoli, più che nei grandi centri. E questo soprattutto per una questione demografica: nel nostro paese la popolazione è molto più dispersa rispetto ad altri paesi europei. In Italia il 16% della popolazione vive in comuni con meno di 5 mila abitanti e il 35% in comuni tra i 5 e i 20 mila abitanti. Vuol dire, quindi, che la metà della popolazione risiede in piccoli centri. Mentre la popolazione urbana, se si include con un criterio abbastanza esteso tutti gli abitanti delle quattordici città metropolitane (oltre 1.200 comuni, di cui molti sono piccoli), è circa un terzo del totale.
Questo pone un problema rilevante per la sinistra italiana, che in generale va forte in città e male in provincia. Basta guardare la mappa elettorale: il centrosinistra governa in 9 città metropolitane su 14 e in appena 5 regioni su 20, considerando che ha perso in 6 delle 7 competizioni regionali negli ultimi due anni. È evidente, per la forza dei numeri, che se non recupera consensi fuori dalla ztl (per usare un’etichetta che è stata appiccicata sul Pd) non potrà contendere al centrodestra il governo del paese e della gran parte delle regioni.
Anzi, il rischio è che per la destra diventano contendibili regioni che fino a poco tempo fa non lo erano. Probabilmente non è il caso dell’Emilia-Romagna, dove il Pd è ancora molto forte, ma è a rischio la Toscana, dove la destra avanza inesorabilmente da anni. Già diverse regioni che erano considerate “rosse” sono cadute nelle mani del centrodestra: la Basilicata al sud, l’Umbria e le Marche nel centro. Non a caso si tratta di regioni dove non ci sono città metropolitane. Forse il centrosinistra riuscirà a conservare ancora la Toscana grazie al peso politico e demografico di Firenze, oltre al fatto che il presidente della regione è un politico vecchia maniera come Eugenio Giani che conosce il territorio e gira tutti i comuni, ma la tendenza sembra inesorabile.
Se il Pd non recupera la provincia non ha futuro. È un problema che riguarda tutte le sinistre occidentali, dalla Francia al Regno Unito fino agli Stati Uniti, ma che in Italia è forse più pronunciato. Di questo problema, ben inteso, la sinistra è consapevole. Tanto che dedica alla questione molto più studio e impegno della destra. Fa tanti seminari e convegni sui “luoghi che non contano” e sul rilancio delle “aree interne”, ma è come se parlasse di quella gente e non con quella gente. La destra, invece, parla meno della provincia ma c’è: la rappresenta, anche nei suoi difetti.
L’impressione è che l’atteggiamento della sinistra in senso lato – politica, mediatica e intellettuale – verso la provincia sia come quello di un antropologo o un entomologo: la studia e propone soluzioni, policy, strategie… Ma parla una lingua diversa: le battaglie politiche e mediatiche che fanno riscuotere più successo nelle città sono quelle in cui meno si riconoscono le popolazioni rurali o dei piccoli centri. Manca quella “subcultura” – come la definiva il politologo Mario Caciagli, da poco scomparso, nel suo libro “Addio alla provincia rossa” – che teneva in sintonia i partiti di sinistra con l’Italia profonda, quel pezzo di paese che ha una sua dinamicità ma affronta alcune mode e trasformazioni sociali con più lentezza e scetticismo rispetto alla città. Senza che allora venisse stigmatizzato, come fa ora la sinistra ortopedica urbana.
Ci sono personalità politiche, a sinistra, in grado di parlare ancora a questo pezzo di Italia. Uno di quelli che ci riescono meglio è Vincenzo De Luca, che alle ultime regionali in Campania è stato confermato presidente con il 70% dei voti. E non è un caso che – proprio per il suo linguaggio diretto e spesso “scorretto” – sia ostracizzato dalla classe dirigente nazionale del partito. Ma se vuole mettere in campo una vera strategia politica per le “aree interne”, più che ai convegni di Fabrizio Barca, il Pd dovrebbe affidarsi a chi come De Luca da anni riesce a unire la capacità di raccogliere consenso politico a quella di governare decentemente. Ma la sensazione è che De Luca stia per essere espulso dal partito, come si fa con un corpo estraneo. L’esito più probabile, ovviamente, è che l’anno prossimo anche la Campania passerà al centrodestra.