Giornalismo d’inchiesta e fuffa. Da Sergio Zavoli al metodo “Iene”

Grande apprensione la scorsa settimana per l’inchiesta di “Report” su Alessandro Giuli. Si garantivano scandali, rivelazioni scomode, un terremoto politico, forse le dimissioni del ministro e chissà cos’altro. In un lunghissimo “aspettando Report” andato avanti per giorni, Ranucci parlava per ammiccamenti, mezze frasi, abbiamo roba che scotta, “qui c’è un nuovo caso Boccia ma al maschile”, “sono coinvolte alte cariche di Fratelli D’Italia”. Tutto un dire e non dire tronfio e un po’ sbirresco: “Domenica sera consiglio a Giuli di guardarsi Inter-Juve”, capisci a me (si rivelava però un buon consiglio, a San Siro hanno fatto otto gol). La puntata bollente però sembrava uscita dal “Caso Scafroglia”: la dipendente del Maxxi intervistata ai giardinetti con volto pixelato e voce camuffata come i pentiti. Il gallerista d’arte che forse fa il saluto romano al bar. Federico Palmaroli in arte “Osho” che s’impiccia di quadri e sculture nella grande Mostra sul Futurismo architettata da Sangiuliano per ribaltare l’egemonia culturale. E poi lo sfregio, il taglio, la firma di Boccia sul cranio dell’ex ministro messo in bella vista su tutti i quotidiani come promo della trasmissione: Repubblica, Il Corriere, La Stampa, Il Fatto con la pelata di Genny in inquadratura chirurgica da house-organ di una clinica tricologica che lancia un nuovo trapianto, “il percorso verso i capelli che hai sempre sognato comincia da qui”. Scaglie, highlights, momenti dimenticabili da una puntata di “Report” che sarà piaciuta anche a Gasparri sbracato sul divano con carota e cognacchino, come quel giorno in commissione di Vigilanza Rai con Ranucci.

La stagione della telepolitica non è mai veramente iniziata finché non ricomincia “Report”, “il programma simbolo del giornalismo d’inchiesta in tv”. Noialtri umili servitori del giornalismo d’opinione e peggio ancora “di costume” abbiamo un debole per chi traffica con la Verità. Abbiamo un debole per le grandi inchieste che sfidano il Potere. Abbiamo un debole per “Report” e i suoi fratelli. Ognuno ha la sua hit-parade di inchieste preferite. Per me al primo posto svetta ancora “Autogrill dei segreti”, la puntata del cagotto alla stazione di Fiano Romano, Renzi e “l’uomo dei Servizi” che parlano fitto in una piazzola con una “Rustichella” in mano. Trame italiane, piste nere, sosta con dissenteria e professoressa democratica che immortala col telefonino i segreti di stato. “Report” in purezza. I titoli delle inchieste di “Report” poi sono bellissimi, a metà tra “Cronaca vera” e una versione inchiesta degli Urania, la vecchia collana di fantascienza Mondadori: la scorsa settimana, “Boccia & Boccioni”, “Rimetta a posto la candela” (la storia del dipinto di Sgarbi), poi pescando a caso tra le ultime stagioni, “Renzi d’Arabia”, “Il pacco di Amazon”, “Grande Raccordo Criminale”, “Babbi e spie”, “Soberana: il vaccino cubano”, economico, sicuro, efficace, anticapitalista, il vaccino preferito di “Report”. Tiene lontano anche il neoliberismo. Nella piramide dei generi giornalistici l’inchiesta domina la vetta. E’ il sublime della professione. Mai serva di nessuno.

Ma in tv anche l’inchiesta se la deve vedere con lo share. E al fatidico “metodo Report” si è aggiunto un sapiente marketing della suspense e dell’allusione che ai tempi di Milena Gabanelli si vedeva meno. Ranucci s’è inventato lo scoop a rilascio ritardato per “generare l’hype”, come usa dire oggi. E l’hype della scorsa settimana era in effetti parecchio. Solo che non c’era lo scoop. Quando il film non è granché il trailer dovrà essere formidabile, e la trovata era tutta in quell’inchiesta a forma di “promo” distillata in piccole dosi quotidiane. La vera puntata di “Report” era l’anticipazione di “Report”. Il resto, come tutti sanno, era fuffa. Storie fatte di “se” e di “ma”. “Un racconto così raffazzonato che era difficile capire dove andasse a parare”, come ha scritto Aldo Grasso nella sua impeccabile stroncatura. E lasciando stare che non ci ricordiamo mezza puntata dedicata al Maxxi nella decennale gestione Melandri, l’inchiesta su Toti e la Liguria a urne aperte era anche peggio: i clan, il “sottobosco”, le infiltrazioni, sempre il solito sottinteso: “Se vince la destra, vince la mafia”. Veniva voglia di prendere al volo la residenza a Genova solo per votare Bucci. Ma il nuovo governatore della Liguria avrebbe dovuto ringraziare. Le inchieste di “Report” hanno ormai l’effetto delle imitazioni di Crozza: partono come denunce e diventano anche celebrazioni, tributo, omaggio: se non hai un’inchiesta di “Report” oggi non sei nessuno. Il confine tra macchina della gogna, diffamazione e quei fatidici “quindici minuti di celebrità” che fanno sempre comodo è saltato da un bel po’.

Andare sul posto, zaino in spalla, pedalare, intimavano i vecchi capo-redattori. Farsi le ossa con le inchieste, che all’inizio erano soprattutto sinonimo di viaggi e reportage. Mostrare le cose, non giudicare, mettere insieme i fatti, lasciare che sia lo spettatore a fare “2 più 2”. Ma trent’anni di “Le Iene” e scuola Santoro e Gabbie, Piazze pulite e Arene varie hanno modellato il linguaggio dell’inchiesta. L’inchiesta televisiva è diventato il genere grillino par excellence, e “Report” era nel primo pantheon del Movimento, con “La Casta”, la Trattativa, i documentari di Michael Moore, Serge Latouche, Sabina Guzzanti e “Povera patria” di Battiato. L’arrivo delle telecamere leggere e digitali e poi smartphone e altre diavolerie portatili ha rovesciato sull’inchiesta un lessico visivo diventato ormai la norma: inquadrature sghembe, mai frontali, riprese occulte à la “Blair Witch Project” col telefonino puntato a terra (il famoso “piano americano” ma dalla cintola in giù). E interviste al citofono, screenshot, pezzi di chat, vocali, intercettazioni recitate, dichiarazioni estorte senza consenso, manipolate, riscritte, rimontate, decontestualizzate, sempre naturalmente in nome del “diritto di cronaca”, in ossequio alla retorica dell’irriverenza, come industria dell’indignazione comanda. E’ il montaggio lo “specifico” dell’inchiesta.

Al posto dei tempi lenti e riflessivi della vecchia inchiesta, con una cura e una ricercatezza dell’immagine magari anche pallosa ma un grande senso del racconto, quelle di oggi celebrano il “montaggio sovrano”, come dicevano i costruttivisti russi. “L’effetto Iene” come “l’effetto Kulesov”. Il senso del racconto non sta dentro l’immagine, scaturisce dall’accostamento più o meno truffaldino tra inquadrature, dalla manipolazione del “girato”. Si ricorderà che Renzi oppose alla sua intervista a “Report” il video integrale non montato per far vedere la bella differenza che c’era. Al povero Monteleone con “L’Altra Italia”, mandato in prima serata su Rai 2 contro Formigli e caracollato sotto la soglia psicologica dell’1 per cento di share, meno di un film italiano in sala, si chiedevano inchieste che “avessero lo spirito delle Iene”. Eccole: “Sesso con sconosciuti e sfida social tra giovanissimi. Che cos’è il Calippo Tour”; “C’è un’epidemia nel consumo di crack che non risparmia nemmeno il centro di Roma”; “I giovani non vogliono più fare l’amore. Perché?”, o un interessante “Viaggio a Highland Park, al nord di Detroit, la città più pericolosa del Michigan”. Lo “spirito delle Iene” però era tutto nel primo commento al promo della puntata su Instagram: “Antoni’ ma che ce ne fotte qui del Michigan”.

Sono anni che sentiamo invocare il “ritorno delle grandi inchieste”, risucchiate, marginalizzate dai talk-show smarmellati su tutto il palinsesto. Anni che sentiamo rimpiangere la tv di Zavoli e Biagi o le docufiction su Camorra e Cosa nostra di Marrazzo (Giuseppe, detto “Joe”, padre di Piero). Quei suoi servizi nei tg che erano piccoli gioielli di scrittura con un gran senso neorealistico dell’ambiente e lui, Marrazzo, che si piazzava a casa di Raffaele Cutolo insieme ai boss. Ma quella tv è oggi improponibile. Il pubblico è smanioso di arrivare al dunque. Rivedetevi “La notte della Repubblica” su RaiPlay. Un capolavoro, per carità. Però solo la sigla dura quanto un servizio delle “Iene”. C’è il maestoso tempo tragico di una rappresentazione al teatro greco di Siracusa. Tutto è teatrale, solenne, non televisivo. E forse anche il Sergio Zavoli di oggi ci infilerebbe un montaggio sbarazzino, l’intervista a un brigatista al citofono, lo scrolling sulla chat di gruppo di Mario Moretti e i deep-fake del Sisde su TikTok.

Si deve a “Le Iene” o a “Striscia la notizia” la fusione tra rotocalco, spettacolo e giornalismo investigativo. Ma va ricordato che “Le Iene” si chiama anche “Le Iene Show”. “Striscia” ha il Gabibbo, gli inviati mezzi matti, la cornice grottesca e fracassona che sappiamo, e che non solo non toglie forza all’inchiesta ma riafferma casomai il vecchio adagio di Monicelli sugli italiani che “amano sentir parlare dei loro difetti, delle bugie, delle disfunzioni del loro sistema, solo a patto di poterci ridere sopra”. Era questa del resto la forza, la smagliante superiorità della commedia all’italiana sul nostro cinema civile anni Settanta, accigliato, impegnato, di sinistra, mai sfiorato dal dubbio, l’indice sempre puntato contro un colpevole perfetto (la Democrazia cristiana, la Fiat, le multinazionali, gli amerikani, il Capitale, lo sfruttamento della classe operaia). Certo l’inchiesta è difficile. Costa tempo e soldi. Richiede competenze. Non è conveniente come il cazzeggio da talk-show. Non si fa coi “buoni-taxi”. Però tutti ormai si improvvisano giornalisti d’inchiesta. Cresciuti con Zavoli, “Prima pagina” di Billy Wilder o Dustin Hoffman e Robert Redford nella redazione del Washington Post, ci sono poi toccati in sorte Santoro, Ruotolo, “Report”, “Tutti gli uomini di Gabanelli” e le inchieste di “Piazza pulita” e Giletti. Ci è toccato Fanpage, il call center delle inchieste.

Alla solida formazione anticapitalista dei vecchi giornalisti d’inchiesta, si affianca oggi una generazione di giovani freelance venuta su col ritornello della Trattativa. In Italia tra il ‘92 e il ‘94 c’è stato un golpe, la mafia ha fatto vincere Berlusconi, e ora eccoci qui. A furia di ripeterlo, dopo trent’anni diventa una verità autoevidente. Un dogma che nessun processo-fuffa potrà smentire. “So i nomi ma non ho le prove”, come diceva Pasolini, un claim che dovrebbe essere l’esatto contrario di ogni inchiesta ma che invece benedice ancora oggi il lavoro del giornalista scomodo. La giovane cronista dell’inchiesta undercover di Fanpage, quella sulla “gioventù meloniana” e i fasci irredimibili, ha capito “quale direzione voleva dare al suo percorso” dopo aver scoperto “Antimafia Duemila”, una rivista, un’associazione, una factory che è anche una scuola Holden dell’inchiesta con Ingroia al posto di Baricco.

Qui la Trattativa è Bibbia: “Siamo convinti che tra coloro che ci governano oggi si nascondano i mandanti delle stragi che hanno pianificato la Seconda Repubblica con lo specifico scopo di mantenere e peggiorare lo stato di disequilibrio sociale in Italia e nel mondo a vantaggio di quei pochissimi che avranno diritto di usufruire delle limitate risorse che il nostro Pianeta, sfruttato a dismisura, ancora può offrire”.

Il mondo di Matrix è più sfumato. E’ l’inchiesta nell’epoca del complottismo di massa. Da questo mondo scaturiscono le inchieste di Giletti sulle “mafie” che a un certo punto sostituirono il martellamento sui vitalizi. La procura di Termini Imerese assecondava il capriccio del conduttore che si era fissato con le tre sorelle Napoli e la “mafia agricola” di Mezzojuso, provincia di Palermo. Televisivamente un bel colpo: in un’epoca in cui si parla di mafia solo per operazioni in Borsa, riciclaggio, finanza e investimenti alle Cayman, giocarsi la mafia contadina come nei western siciliani di Pietro Germi era un’idea niente male. Però il caso era inesistente. Né estorsione, né intimidazione. Nulla. Tutto archiviato.

Ci fu però un ciclo estenuante di puntate con le sorelle che raccontavano di capre, bovini, mucche infuriate di Mezzojuso lanciate dalla mafia per distruggergli il grano. “Anche se i processi non hanno trovato colpevoli”, diceva Di Pietro da Giletti, “le sorelle Napoli sono vittime di una realtà criminale che sta dietro questo sistema”. Inchiesta fuffa. Inchiesta col bluff. La famosa “diffamazione a Mezzojuso”. Ma Giletti, come del resto Ranucci, può vantare l’assegnazione della scorta. E non si vuole qui certo ironizzare su un tema così delicato, con una Spoon River di giornalisti ammazzati dal nostro dopoguerra in su. Però, ecco, Giletti in copertina di “Diva e Donna” col giubbotto antiproiettile, gli occhiali da sole e la scorta intorno un po’ faceva ridere. Perché la scorta oggi arriva quasi subito, almeno quanto arrivava sempre tardi prima. Basta una vaga minaccia captata su WhatsApp. E a volte funziona anche come nutrimento dell’ego, distintivo, segno di grandeur giornalistica. Scorte che si portano come un Pulitzer. Ma questo è un discorso scivoloso e per fortuna la pagina è finita. Non resta allora che vedersi “Report” domani sera. Puntatone su “Israele laboratorio politico della nuova destra internazionale”. Forse si riallaccia all’inchiesta sulla “pista israeliana di Ustica” di un po’ di tempo fa (le puntate di “Report” dialogano tra loro come gli Adelphi, un unico vasto libro che si scioglie nel catalogo). Si sa che Israele è una vecchia fissazione. Ma è anche colpa nostra che ci siamo persi tutte le inchieste di “Report” su Hamas, Hezbollah, la polizia morale in Iran, le ombre dell’Unrwa. Al più presto recuperiamo tutto su RaiPlay.