Gli ostacoli dietro la vittoria di Trump

Donald Trump è il presidente, non il padrone degli Stati Uniti. Tantomeno l’imperatore del mondo. Due premesse utili a interpretare il suo ritorno alla Casa Bianca oltre gli stereotipi. E a introdurre qualche bemolle nella notazione ricca di diesis con cui spesso si rappresentano le conseguenze di questa impresa.

La scena americana e quella planetaria sono in fase di accelerata mutazione, come sempre accade nelle transizioni egemoniche. Il sole a stelle e strisce sta tramontando senza che nessuno sia in grado di prenderne il posto. Ne deriva anarchia geopolitica ed economica, eccitata dal panico di chi abituato a orientarsi sulla stella fissa è senza riferimenti. Vale per amici e nemici del numero uno in panne. Per chi come noi è parte dell’ecumene occidentale in contrazione e per i suoi avversari sempre più numerosi e disinibiti. Tre osservazioni invitano a considerare gli ostacoli contro cui Trump rischia di inciampare.

La prima riguarda i rapporti di forza nel sistema americano in decomposizione. Il presidente è stato eletto per causa di questa crisi, ma ora dovrà gestirla.

Impresa da far tremare i polsi. Lo storico conservatore Niall Ferguson paragona il crepuscolo degli Stati Uniti agli ultimi anni dell’Unione Sovietica. Un breve elenco delle disfunzioni dell’ex strapotenza induce a riflettere.

Anzitutto, la frattura scomposta e incomponibile fra popolo ed élite, ovvero fra deplorevoli bifolchi e arroganti senza patria, stando alle invettive reciproche. Due nazioni. O almeno due modi opposti e incompatibili di sentirsi americani. Democratici e repubblicani non si sopportano. Tanto che su cento matrimoni solo quattro sono “misti”. Si sposano più bianchi e neri che rossi e blu. Per la nazione ancor più che per la famiglia vale la regola che quando si divide è molto difficile ricomporla.

Certo colpisce che un oligarca golpista si sia intestato la guida del popolo contro le élite. La spiegazione più perspicace viene da un analista cinese, Shen Yi, che ricorda quanto affermato da Engels sulla tomba del suo amico e cofondatore del comunismo scientifico: “Marx ha scoperto la legge di sviluppo dell’umanità. La gente deve prima mangiare, bere, vivere e vestirsi, solo poi dedicarsi ad altre attività. Niente supera il fondamento economico”.

La seconda nota riguarda le resistenze dei burocrati e dello Stato profondo. Trump conta su Congresso, Corte Suprema e Casa Bianca. Vedremo fino a che punto. Ma le tecnocrazie che dovrebbero eseguire i suoi decreti ribollono di dirigenti e funzionari che lo detestano. E che considerano dovere patriottico ostacolarlo. La misura del suo potere l’avremo fra qualche mese, ad amministrazione insediata. Se la vuole fedelissima dovrà fare strage di tecnici per lui inaffidabili e trovarne altrettanti di valore. La prima è impresa ardua, la seconda impossibile. Si consideri anche che alcuni Stati federati tendono a muoversi per conto loro. Vale per la democratica California come per il Texas repubblicano. Mentre Washington, Distretto di Columbia, sentina di ogni malaffare nella vincente narrazione trumpista, si conferma isola blu, con percentuale bulgara a favore di Harris: 92,7%. Capitale del pianeta che non c’è. Quindi di sé stessa.

Dai malanni interni deriva infine il ripido declino dell’impegno dunque dell’influenza americana nel mondo. Trent’anni fa gli Stati Uniti si rappresentavano Nuova Roma con steroidi. Ubriacatura da “momento unipolare”. Per un paese in origine imbevuto di spirito missionario e che pertanto si considerava sovraordinato agli altri attori della scena internazionale, il declassamento è di dolorosa elaborazione.

Oggi i soci dell’impero recitano a soggetto, usando gli Stati Uniti — caso limite Israele, più gemello che alleato — invece di esserne usati, come regola non scritta stabiliva. E i non cosiddetti avversari, tutt’altro che unanimi, trovano nel rifiuto dell’egemonia americana l’unico vero punto di convergenza. Le relazioni fra Stati o pretesi tali volgono al bazar. Ci si intende su singoli dossier mentre ci si interdice su altri. Scopriamo con ritardo che il mondo non è piatto, come cantavano qualche anno fa i laudatori della globalizzazione, convinti che scopo dell’umanità fosse diventare America.

Fin qui i dati. Poi ci sono le incognite.

E le sorprese. Una è in agguato dove Trump meno se l’aspetta (o forse sì, ma allora recita bene). Si chiama Elon Musk. Il quale ha girato ai suoi milioni di contatti il fotomontaggio che lo ritrae nello Studio Ovale. “È nata una stella”, ha proclamato il presidente nel giorno del trionfo. Una stella, appunto, non un pianeta. Musk non riflette la luce del sole Trump perché emette la sua. Ed è abituato a muoversi per conto proprio. Per esempio cedendo tecnologia americana ai cinesi o concordando con i russi la sua strategia dei satelliti per evitare che Putin gliene abbatta qualcuno. Alcuni sospettano che non fosse per la nascita sudafricana Musk si lancerebbe nella corsa per la Casa Bianca 2028. Ma in attesa di lanciarsi su Marte lui preferisce fare il padrone su Terra. Altro che presidente dell’America in declino.