Più la sinistra va a sinistra e più si avvicinerà alla stessa destra estrema che sostiene di voler combattere

E’un brivido leggero, inconfessabile, ma che da giorni, in modo inesorabile, attraversa i corpi di alcuni soggetti politici che in teoria dovrebbero essere rattristati dalla vittoria del numero uno dei populisti mondiali, del commander in chief dell’estremismo di destra. Lui, naturalmente: Donald Trump. E’ un brivido leggero, inconfessabile, a occhio nudo quasi impercettibile, ma è un brivido che da giorni, dalla notte tra il 5 e il 6 novembre, è lì che riempie di piacere un particolare soggetto politico, che appartiene con orgoglio al mondo del centrosinistra. Non si può dire apertamente, non si può confessare apertamente, ma la verità è che la vittoria di Trump non ha mandato in visibilio solo i follower del nazionalismo ma ha mandato in silenzioso visibilio anche i follower del populismo di sinistra che nella vittoria di Trump hanno ritrovato molte delle proprie parole d’ordine.

Ufficialmente, a viso aperto, come si sarebbe detto un tempo, la vittoria del trumpismo ha rallegrato un pezzo del mondo progressista italiano perché gli ha permesso di dire che le vittorie contro i populisti di destra non possono essere combattute presidiando il centro, come ha fatto Kamala, ma devono essere combattute andando a sinistra. Il problema, però, come dimostra l’elezione di Trump, è che il tema è esattamente l’opposto: più la sinistra va a sinistra e più si sentirà perfettamente rappresentata dall’estrema destra. Il caso del trumpismo, da questo punto di vista, è interessante almeno per tre ragioni diverse. La prima ragione, ovviamente, riguarda la politica estera e riguarda in particolare l’approccio isolazionista professato da Trump su alcune partite diventate un simbolo dell’Amministrazione Biden. Una su tutte: l’Ucraina.

Trump, come un certo mondo progressista, un mondo che per esempio in Italia investe il M5s e un pezzo di Partito democratico, considera deleterio l’aiuto ostinato e prolungato offerto dall’occidente all’Ucraina e di conseguenza, mescolando una dottrina che si trova a metà strada tra il modello Vannacci (Lega), il modello Tarquinio (Pd) e il modello Conte (M5s), vede una sola soluzione per risolvere ogni problema nel conflitto tra Ucraina e Russia: alzare bandiera bianca, riconoscere a Putin quello che ha conquistato con la forza e smetterla con questa guerra inutile.

Il secondo tema riguarda la politica economica. Trump, lo sappiamo, da anni promuove una politica economica basata sul protezionismo, sulla lotta contro gli accordi di libero scambio e sulla valorizzazione del tessuto industriale nazionale attraverso la costruzione di guerre commerciali con i propri partner e il sovranismo economico costruito sul modello della battaglia contro la globalizzazione selvaggia e da anni parte integrante del pantheon culturale di un pezzo del centrosinistra più sensibile al vecchio richiamo no global.

Il terzo punto, più sottile ma non secondario, riguarda il resto della piattaforma economica proposta da J. D. Vance, vice di Donald Trump, in campagna elettorale. Vance, esattamente come un pezzo del mondo progressista europeo e anche di quello italiano, considera le grandi aziende e le multinazionali come delle nemiche giurate del popolo e durante la campagna per le presidenziali.

Per Vance, come ha notato mesi fa sul Foglio Luciano Capone, lo stato è spesso la soluzione, mentre il mercato è la causa dei problemi economici, sociali e morali dell’America, e la dottrina Vance è totalmente integralista sul ruolo dello stato, che deve essere regolatore delle politiche commerciali (per limitare la libertà di scambio dei beni), che deve essere regolatore della politica industriale (per proteggere la manifattura nazionale e indirizzare lo sviluppo) e che è una dottrina, come ha ammesso lo stesso Vance in una famosa intervista concessa a febbraio al New Statesman, che rappresenta un “ibrido tra la socialdemocrazia di sinistra e l’elevazione individuale di destra”. Durante la campagna elettorale, il Wall Street Journal, il cui proprietario è Rupert Murdoch e la cui linea è sempre stata di forte sostegno a Trump, ha denunciato non a caso una certa deriva del modello Vance, ha notato che lo stesso Vance si definisce membro della destra “postliberale”, dove postliberale deriva dall’affermazione che i problemi sociali e morali dei tempi moderni sono il risultato inevitabile del regime liberale istituito dai Padri Fondatori, e ha notato che la critica alla dottrina “libertaria” o “neoliberista” allontana il conservatorismo di oggi da quello del passato, lo avvicina inevitabilmente più al mondo progressista che a quello tradizionale repubblicano e lo posiziona su un crinale al centro del quale vi è una forma di processo politico a ogni forma di liberalizzazione economica e a ogni forma incontrollata di progresso tecnologico dalle sfumature marcatamente più di sinistra che di destra. Trump è un idolo della destra nazionalista, ovviamente, e della destra più populista, e forse non solo di quella. Ma il fatto che un pezzo del mondo progressista mondiale sembra essere sollevato dalla vittoria di Trump non è solo un’impressione. E’ qualcosa di più. E’ un brivido leggero, inconfessabile che è lì a ricordarci che .