Pulp fiction di Tarantino, dopo 30 anni diventano più chiari i dettagli

A maggio del 1994 venne presentato a Cannes il film di Quentin Tarantino (Knoxville, 1963) e molti capirono che in quel momento il cinema stava conoscendo un’altra rivoluzione. Era già successo nel 1941 con Quarto potere di Orson Welles, quando le strutture narrative del cinema classico furono innovate con quelle a-lineari del cinema moderno; era già avvenuto nel 1977 con Star Wars – Episodio IV: Una nuova speranza di George Lucas, il primo capitolo di una delle saghe cinematografiche più di culto e redditizie della storia del cinema, il primo blockbuster,  pensato per il più ampio pubblico possibile.

Subito, ad una prima visione, gli spettatori furono emozionati e sorpresi, ammaliati da tanti dialoghi leggeri, sempre in bilico tra surreale e grottesco, mentre i critici (dubbiosi se fosse un film di genere o un’opera a sè stante) tentavano di dare un nuovo significato all’intreccio, a quella continua trasgressione di regole con digressioni infinite, con tanti episodi e momenti che paiono separati, ma in realtà, alla fine, sono ben uniti e coesi. Ci si trovava davanti ad un film dove mancava un lineare flusso spazio-temporale. Passato, presente e futuro si incrociano, e con esso il destino dei suoi personaggi. L’ordine della storia del film è sconvolto, la sequenza finale di Pulp Fiction vede Jules e Vincent affrontare i rapinatori della tavola calda dell’inizio del film. Bene, ma nonostante non sia il finale cronologico, la scena finale del film è il finale tematico. “Tutte le idee di intervento divino, perdono e vendetta si fondono nel confronto di Jules con i rapinatori nella tavola calda, spiegando perché Tarantino ha deciso di raccontare la storia in quest’ordine”(Cinefilos).

Ecco che Pulp fiction presentò quello che oggi siamo abituati a vedere in qualsiasi film. Oggi non si usa più il flashback, la rievocazione di episodi avvenuti nel passato, o il flashforward, quando viene raccontata una scena che avverrà nel futuro. Tutto diventa intrecciato, per cui allo spettatore vengono fornite delle tessere e sarà lui a dover ricomporre il puzzle. Una volta negli anni ottanta con alcuni amici  vedemmo in  sala un film e all’uscita discutemmo a lungo sulla trama. Soltanto dopo alcune ore capimmo che il proiezionista si era sbagliato e ci aveva fatto vedere dapprima il secondo tempo e poi il primo. Oggi la mente di ogni spettatore, anche grazie a Tarantino, è capace di ricostruire l’intreccio narrativo orientandosi tra passato e futuro. Ma il suo merito maggiore forse trascende questa nuova grammatica filmica, ormai adottata da tutti, non solo dai grandi autori. Episodi e momenti che paiono isolati (e si ricompongono alla fine) consentono agli autori (per esempio Paolo Sorrentino, si veda il suo recente Parthenope) di procedere con grande libertà nel comporre l’opera, attraverso ricordi, sottolineature, annotazioni, rimandi, esagerazioni. Ma proprio un paragone tra Pulp fiction e Parthenope ci consente di capire meglio. Nel film di Sorrentino il personaggio simil-Loren di Luisa Ranieri resterà (anche per quello che dice su Napoli) nel tempo, ma tanti altri personaggi (il camorrista, per dirne uno solo) non lasceranno traccia nè memoria. Al contrario tutti, e ripeto tutti i personaggi di Tarantino in tutti i suoi film rimangono scolpiti nella nostra testa, anche se sono apparsi per pochi minuti.

In Pulp fiction (dopo ben 30 anni), Tim Roth ( Ringo “Zucchino”) e Amanda Plummer (Yolanda”Coniglietta”), Harvey Keitel ( Winston Wolfe) e Christopher Walken (cap. Koons), Maria de Medeiros ( Fabienne), sono attori che rimangono ben impressi in testa come e quanto i principali, John Travolta (Vincent Vega) e Samuel L. Jackson (Jules Winnfield), Uma Thurman (Mia Wallace), Bruce Willis (Butch Coolidge) e Ving Rhames ( Marsellus Wallace). Finanche si ricorda ancora Steve Buscemi, il cameriere che in una piccola comparsata prende le ordinazioni a Vincent e Mia che cenano nella macchina (prima di lanciarsi nel mitico ballo sulle note di You never can tell). Insomma, quando Tarantino ti fa partecipare ad un suo film ogni attore sa che il suo ruolo, quello che dirà o farà, senza bisogno di spogliarsi nudo o di fare cose indimenticabili, sarà importante. Ecco la differenza che noi tarantiniani (una sorta di compagnia che dal 1994 venera il Maestro) sappiamo cogliere nel panorama cinematografico attuale. Nel cinema di Tarantino chi appare diventa non importante, ma essenziale. Non esistono comprimari o comparse, o ruoli secondari. Ecco la grande rivoluzione dei “ruoli” attoriali. I suoi film sono sempre corali, perchè ognuno suona il suo spartito, il suo strumento, sia pure per pochi secondi, ma arricchisce il suono dell’orchestra. Contribuisce e determina quanto e come fanno Uma Thurman o Samuel L. Jackson, quel John Travolta (che sembrava non poter uscire dal personaggio della Febbre del sabato sera) o il Bruce Willis conosciuto per la saga di Die Hard.

Tutto il resto, ci mancherebbe, è altrettanto importante e lo tralascio per ragioni di spazio, ma ancora oggi dopo 30 anni è quasi impossibile rinvenire un autore che procede per episodi e ad ogni attore che impiega sa fornire una parte memorabile.

Per cui si può discutere tantissimo sui valori che espone Tarantino, molto interessato alle icone pop come punti di riferimento, effimeri e decadenti. O sul suo linguaggio, figlio diretto dell’esperienza e delle tradizioni, “con la cultura pop ad arpionare le menti, con i suoi simboli e il suo slang”; o sulla sua cultura cinematografica che si è costruita su tutti i registi, anche di genere, capaci di suscitare emozioni. Ma Quentin Tarantino se affida una “parte” anche minuscola ad un attore significa che ha bisogno di lui. Nessun riempitivo, nessuna digressione, nessun allungare il brodo, nessun contorno. Lui racconta storie dove anche i piccoli particolari sono significativi e i dettagli sono essenziali. O forse a guardar bene dettagli proprio non sono.

Tarantino fa diventare reale l’irreale. Come quel passo biblico di fantasia (Ezechiele 25:17) che era presente nel film Karate Kiba e anche in Un piede in paradiso. Tarantino lo fa in Pulp Fiction recitare tre volte al personaggio di Samuel L. Jackson. Jules lo cita a memoria ma senza capire cosa sta pronunciando, perchè lui esegue solo la parola di Marsellus  e il versetto biblico contiene (come la valigetta?) solo parole vuote alle quali ognuno può dare il significato che vuole, magari in nome della tradizione. Insomma, 30 anni fa Tarantino spiegava già quel che oggi è normale, con persone che fanno cose (anche ammazzare) convinte di star seguendo precetti, insegnamenti, esempi, parabole.