(fs) E’ sempre difficile autocitarsi, ma essendo sul mio blog a me è consentito. Dieci anni fa scrissi uno dei due libri che ho dedicato al mio lavoro scolastico. In ” La fabbrica dei voti finti” mi premeva far riflettere su quanto la “lezione frontale” fosse ancora egemone tra i metodi di insegnamento, per cui gli apprendimenti degli allievi (che sono il vero prodotto della scuola, non certo i voti positivi) non si possono incrementare se questo dato non viene incrinato. Tale metodologia didattica nasce dalla convinzione diffusa -eppur falsa- tra gli addetti ai lavori che si impara ascoltando (caso mai facendo); inoltre ogni insegnante è convinto che quel che è capitato a lui da ragazzo a scuola possa ripetersi con i suoi allievi. Se quel metodo con me ha dato buoni frutti perchè cambiarlo? Questa illusione degli insegnanti che la scuola sia un mondo fuori dal tempo e dallo spazio per cui anche i metodi didattici sono immutabili resta una certezza inscalfibile. Essa ha poco a che vedere con la scienza ma abbraccia il fascino dei miti e anche la superstizione. Dopo 10 anni da quel che scrivevo io, è cambiato poco o nulla. Una ricerca della Erikson lo dimostra.
(Daniela Di Iorio) Come si insegna oggi nella scuola italiana? Quali sono le metodologie didattiche più/meno utilizzate? C’è differenza in base all’età dei/delle docenti? C’è differenza in base al livello di istruzione dei/delle docenti? C’è differenza in base agli anni d’esperienza dei/delle docenti? C’è differenza in base all’ordine e al grado scolastico?
Il Report Didattiche 2024 dell’area Ricerca & Sviluppo del Centro Studi Erickson ha voluto rispondere a queste domande perché di fronte a una popolazione scolastica sempre più diversificata, è necessario capire se gli insegnanti stiano rispondendo alla sfida di rendere la didattica maggiormente inclusiva ed efficace, integrando pratiche che promuovano pari opportunità di apprendimento attivo, di benessere e di sviluppo delle competenze trasversali.
Su un campione finale di 1965 insegnanti, che copre uniformemente tutti i gradi scolastici e le regioni italiane, con un’età media di 45 anni, di cui 1508 femmine e 130 maschi, il 70% dichiara di usare nella maggior parte delle lezioni la didattica frontale, mentre la didattica aperta viene utilizzata nella quotidianità solo dal 13% degli insegnanti intervistati, e il 21% dichiara addirittura di non conoscerla. Simile risultato per la didattica in contesti reali, usata con frequenza solo dal 12% del campione. Infine, in linea con gli investimenti governativi, 1 su 2 dichiara di usare la tecnologia almeno in buona parte delle lezioni.
Il dato della prevalenza della didattica frontale rispetto alle altre metodologie didattiche non ha stupito gli autori della ricerca, Dario Ianes (docente di Pedagogia dell’Inclusione all’Università di Bolzano, psicologo dell’educazione e co-fondatore del Centro studi Erickson) e Benedetta Zagni (psicologa dell’educazione e ricercatrice Erickson), nonostante per lo svolgimento del sondaggio abbiano usato l’espressione ‘spiegazione al gruppo classe’, più neutro rispetto a ‘didattica frontale’, considerata negativamente dall’immaginario collettivo.
«Ci ha invece stupito il dato positivo delle “inseguitrici”, ovvero le alte percentuali del secondo, terzo e quarto posto: la didattica laboratoriale, il peer tutoring, l’apprendimento interattivo attraverso l’uso di tecnologie, e il cooperativo», hanno commentato gli autori.
Buona, infatti, la diffusione dell’uso del peer tutoring – metodo didattico in cui uno studente più esperto aiuta un compagno di classe a migliorare le proprie competenze – e della didattica laboratoriale: 1 su 2 dichiara di usarle frequentemente nella pratica didattica. I risultati hanno aperto la via a previsioni e soluzioni: «Se vogliamo che la didattica aperta ceda il passo e conviva con tecnologie più attive bisogna investire nella formazione dei docenti. Il livello di istruzione gioca infatti un ruolo fondamentale nei confronti dell’utilizzo delle didattiche attive, ecco perché c’è bisogno di un investimento per essere degli innovatori a scuola», spiegano i ricercatori.
Un altro punto intuitivo che emerge dallo studio è che i giovani anagraficamente risultano essere i più tecnologici ma al contempo sono ancora ancorati alla lezione frontale. Un altro dato – sottolineano Ianes e Zagni – è che nella primaria cominciamo a vedere l’effetto positivo del corso di laurea di 5 anni per diventare maestre, attraverso l’uso di didattiche più innovative in classe, come il caso della didattica in contesti reali, laboratoriale, didattica aperta. Un dato che ha stupito la ricerca Erickson è che ci siano così poche persone che conoscono la didattica aperta.
Nelle scuole secondarie (I e II grado) si continuano a utilizzare prevalentemente le metodologie tradizionali di didattica frontale o di lavoro e studio individuale tramite i libri scolastici.
Questi dati suggeriscono ai ricercatori l’idea di un «scuola dell’infanzia approach» per ogni ordine e grado, che stimoli la creatività e il pensiero critico superando la lezione tradizionale del gruppo di classe. A tal proposito il professor Ianes invita i docenti della secondaria di secondo grado a svolgere un anno sabbatico nella scuola dell’infanzia per apprendere i meccanismi di apprendimento ed educazione della prima infanzia, perché «sarebbe un bagno, oltreché di umiltà, di competenza didattica ed educativa».
In conclusione, un intervento di Daniel Pennac al convegno Erickson sul mondo della scuola, occasione per la discussione sul Report: «A scuola abbiamo di fronte sempre alunni e alunne ma non ci ricordiamo mai che sono in primis bambini e adolescenti, non ci rendiamo conto di chi abbiamo davanti, delle caratteristiche evolutive che ci portano a dire: posso pretendere di fare una settimana di lezione 5 ore su 5 la mattina in modo frontale? E’ chiaro che io non ho in mente l’idea di adolescente o l’idea di bambino».