Il punto è quello: rivoltarlo come un guanto, giusto, ma esattamente che cosa? Pensateci un attimo. In fondo, le ragioni ci sono, gli obiettivi pure, ma gli strumenti no, anche se ci sarebbero, e i mezzi scelti per ottenere il risultato sognato non solo sono sbagliati ma sono anche controproducenti. Lo sciopero generale convocato ieri dalla Cgil e dalla Uil può offrire numerosi spunti di riflessione ma quello forse più interessante riguarda un elemento importante e contraddittorio emerso ieri durante i comizi dei due leader sindacali, Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri. Tra le molte motivazioni che hanno spinto i sindacati allo sciopero generale ce ne sono due che meritano di essere prese sul serio e che potremmo provare a sintetizzare brutalmente così: vogliamo salari migliori e vogliamo più lavoro. In attesa di conoscere le idee di Landini e Bombardieri su come ottenere anche più pace nel mondo – idee che forse pensandoci bene potremmo anche non essere interessati a conoscere – si potrebbe notare un problema rilevante nelle posizioni dei due eroi dei sindacati, che emerge con chiarezza mettendo le tesi dei sindacalisti alla prova della realtà. Landini e Bombardieri chiedono dunque salari più dignitosi e lavori più numerosi ma il dato paradossale delle loro posizioni è che per ottenere gli obiettivi sognati l’Italia avrebbe bisogno di assecondare meno l’agenda dei sindacati.
Tre esempi possono aiutare a capire bene il punto. Da anni, per cominciare, Landini ripete che il modo migliore per dare manforte ai lavoratori sia intervenire sul cuneo fiscale, dunque sulla riduzione dei contributi a carico dei lavoratori, ma solo quelli con redditi più bassi. Landini aveva fissato l’asticella della riduzione del cuneo al 5 per cento. Il governo Draghi prima e il governo Meloni poi hanno portato la riduzione al 7 per cento per i redditi fino a 25 mila euro e al 6 per cento per i redditi fino a 35 mila euro. I governi contro cui Landini sciopera regolarmente ogni anno, scioperi che ormai sono diventati simili alle occupazioni degli studenti universitari – appuntamenti fissi, in autunno, a prescindere dal merito delle proteste – sono dunque stati organizzati contro governi che su una battaglia cruciale di Landini hanno seguito la linea Landini e viene da pensare dunque che se i problemi sui redditi dei lavoratori più bassi persistono significa che assecondare la linea Landini non è forse l’idea migliore che si possa avere.
Gli altri due esempi sono forse ancora più interessanti, e chiari, e ci aiutano a mettere a fuoco quanto sia contraddittoria, controproducente e pericolosa, l’agenda Landini-Bombardieri, anche per gli obiettivi prefissati dagli stessi sindacalisti. Landini & Co. sostengono che per avere più lavoro sia necessario demolire l’infrastruttura normativa che grazie al Jobs Act ha contribuito a rendere più flessibili i contratti di lavoro. La narrazione è nota ed efficace: basta disoccupazione, basta lavori precari, basta dare ai padroni libertà di licenziare. Il problema di cui Landini e compagnia si rifiutano troppo spesso di parlare è che la storia recente del nostro paese ha dimostrato che più la politica offre agli imprenditori strumenti di flessibilità nei contratti di lavoro e più gli imprenditori scelgono di assumere in modo stabile, non precario, e preferibilmente a tempo indeterminato. Nel 2014, anno di introduzione del Jobs Act, il tasso di occupazione era al 55 per cento. Nel 2024, il tasso di occupazione è al 62,1 per cento. Nel 2014, il tasso di disoccupazione era del 12,4 per cento. Nel 2024, il tasso di disoccupazione è del 6,1 per cento. Nel 2014, i dipendenti a tempo indeterminato erano 14 milioni e 319 mila e i dipendenti a termine erano 2 milioni e 291 mila. Nel 2024, dipendenti a tempo indeterminato sono 16 milioni e 21 mila unità e i dipendenti a termine 2 milioni e 815 mila unità.
Stessa storia, se si vuole, quando si parla di salari. Landini e Bombardieri dicono giustamente che l’Italia ha un problema grave di salari. Come scritto a ottobre nell’ultimo rapporto sul tema del servizio studi di Camera e Senato, “tra il 2013 e il 2023, il potere d’acquisto degli stipendi in Italia è diminuito in media del 2 per cento, mentre tra i ventisette stati Ue si registra un aumento medio del 2,5 per cento”. Il problema che riguarda la contraddittorietà dell’agenda della premiata ditta Landini e Bombardieri è che le soluzioni suggerite dai sindacati per migliorare i salari sono deboli, fragili e non strutturali. La Cgil e la Uil, come buona parte dell’opposizione, considerano l’introduzione del salario minimo come la panacea di tutti i mali. Ma quello che i sindacati si rifiutano di ammettere è che la storia recente dimostra che i salari più alti si trovano nei paesi in cui la produttività è più alta. E l’equazione da fare è semplice. Per avere una maggiore produttività, e dunque salari migliori, occorre scommettere più sulla contrattazione decentrata, dove le aziende contano di più e dove i sindacati contano di meno e meno sulla contrattazione nazionale, dove i sindacati contano di più e le aziende un po’ meno. Ma per scommettere di più sulla contrattazione decentrata, che permetterebbe ai lavoratori di essere più produttivi e di essere pagati di più, i sindacati dovrebbero ammettere che l’unico modo per migliorare i salari in Italia è rinunciare a qualche contratto nazionale, togliendo dunque potere ai sindacati. Vale per il lavoro e vale per i salari.
La verità che i sindacalisti non possono ammettere è che per avere stipendi migliori e avere più occupati più che rivoltare il paese come un guanto a essere rivoltato come un calzino dovrebbe essere con urgenza l’agenda dei sindacati.