Capitolo dopo capitolo leggi Il follemente corretto, quest’ultimo libro del sociologo Luca Ricolfi, e inorridisci. E non tanto dei singoli e seppure inauditi episodi da lui messi in luce, quanto dall’andazzo generale che ha preso la comunicazione intellettuale nel nostro tempo per come la decifra a meraviglia il professor Ricolfi, una delle menti più libere della nostra cultura odierna. Leggi che in un’università americana una professoressa durante una sua lezione si fosse avvalsa dell’immagine di Maometto, immagine nei cui confronti i musulmani sono discretissimi e vorrebbero celata il più possibile, e che per questo la professoressa è stata allontanata dalla sua cattedra. Leggi che una volta, nel maggio 2018, la rappresentazione al Maggio fiorentino della ”Carmen” di Bizet venne stravolta nel senso che a essere uccisa non era più la bella gitana e bensì il personaggio maschile che nel testo originale funge da assassino, e questo per scansare negli spettatori qualsiasi sospetto di benevolenza nei confronti di un uomo che uccide una donna. Leggo che nel maggio 2019, alla National Gallery di Londra, è stata contestata una mostra di dipinti di Paul Gauguin, perché quando il pittore francese si era trasferito a Tahiti aveva convissuto con una ragazza quattordicenne da cui aveva avuto un figlio. Leggo che sia stato sospeso per un mese dall’insegnamento un professore dell’Università Statale di Milano perché nella sua pagina Facebook aveva utilizzato una vignetta ironica su Kamala Harris, la donna che alle elezioni americane della settimana scorsa ha conteso invano a Donald Trump il ruolo di presidente degli Usa. E che dire della tormentosa discussione in seno alla redazione di un grande quotidiano americano, questo una decina di anni fa, dove si accapigliarono se non era il caso di rinunciare all’aggettivo “grasso” (un aggettivo un tantino spregiante) nell’indicare una persona che effettivamente lo era e sostituirlo magari con un “orizzontalmente svantaggiato”. Non riesco a trovare un altro verbo che non sia inorridire.
Non si tratta di singoli episodi, l’ho detto. E’ un andazzo, un più generale e sistematico orientamento del pensiero diffuso, una sensibilità che in questa materia più puntuta di così non poteva diventare. Tanto che una studiosa del femminismo arriva a scrivere che lei non vorrebbe usare la parola “donna”, perché è una parola che divide gli esseri umani lì dove non dovrebbe e che in sé e per sé non indica nulla di specifico. Laddove non è la parola “donna” in quanto tale che divide ma il contenuto che ognuno ci mette dentro quella parola. E per fortuna che ognuno di noi ci mette dentro qualcosa di diverso, talvolta di opposto, ed è questo contenuto che dà alle nostre vite di tutti i giorni la bellezza e la varietà di cui hanno bisogno. Stavo per dire il dolore di cui hanno bisogno.
Ovviamente non sono solo le parole e le etimologie a creare barriere nella società reale che stiamo vivendo in questi esordi del terzo millennio. Ad arruolare fanatici di ogni sorta, a incentivare gli odi di parte e di setta occorre altro. Ci vogliono i fatti. Come quello che racconta Ricolfi. L’8 marzo è il giorno della festa della donna e l’8 marzo 2024 un gran corteo di donne ha sfilato per le strade di Firenze. Bandiere, slogan femministi gridati a gran voce, dappertutto manifestazioni di solidarietà nei confronti dei palestinesi su cui stanno piovendo le bombe degli aerei israeliani. Qualcosa mancava a quel gran corteo, un riferimento che pure sarebbe stato d’obbligo in quei giorni. Manca il benché minimo riferimento alle donne israeliane stuprate e uccise dai criminali di Hamas pochi mesi prima, il 7 ottobre 2023. Quand’ecco che si presenta in piazza un ragazza italiana (di sinistra) che sventola un cartello provocatorio: “Non una parola sugli stupri di Hamas: le donne israeliane se la sono cercata?” Seduta stante la ragazza viene espulsa dal corteo, magari a proteggerla da reazioni filopalestinesi che correvano il rischio di essere poco eleganti.
E anche se il più e il peggio della materia di cui stiamo raccontando ha il suo territorio naturale negli Usa il cui sovrano è Donald Trump. Lo testimonia un professore italiano, Luigi Andrea Berto, che da una decina d’anni insegna alla Michigan University “Storia del mondo occidentale fino al 1500”. Nel farlo il professore si avvale di un celebre film, “300”, che ha per oggetto la battaglia delle Termopili del 480 a.C., un film da cui risulterebbe che gli spartani erano delle ottime persone e i persiani non lo erano affatto. Finché, dopo un decina d’anni che teneva questo corso, al professor Berto non si si presentarono due studentesse che lamentarono tali presunte faziosità a danno dei persiani e che nel film si mostrassero addirittura delle “molestie sessuali”. Il che imponeva a un professore quali contenuti e quali valutazioni dovesse avere il suo corso. Alla fine del quale gli studenti erano sottoposti a un multiple choice quiz, ovvero a un quiz a crocette dove lo studente risponde con un sì o no secco a domande categoriche. Una di queste domande era formulata così: “Le accuse di molestie sessuali sono sempre vere?”. Uno studente rispose “no” e per questo venne escluso e allontanato dal corso. Come se le istituzioni universitarie, lamentava il professor Berto, dovessero dar luogo a una politica del pensiero, ossia al decidere perentoriamente che cosa è giusto e che cosa no e guai a chi non è d’accordo con quei sì e quei no. Più follemente corretto di così.