Mentre gli italiani contano con ansia i giorni che li separano dal Natale, la politica è ancora alla ricerca del suo centro di gravità permanente. Fratelli d’Italia sembra averlo trovato nel presidente argentino Javier Milei, fresco ospite del festival meloniano Atreju, anche se le sue riforme liberiste sembrano l’antitesi della destra corporativista e un po’ peronista al governo; Matteo Salvini ha invece ritrovato una centralità mediatica con il suo nuovo codice della strada, ma per quella politica dovrà ancora aspettare.
In assenza del Partito democratico, spostato da Elly Schlein sempre più a sinistra con la recente polemica populista sugli stipendi dei ministri con tanto di citazioni del favoloso mondo di Amélie, sono altri a candidarsi al ruolo di federatore del centrosinistra, in modo diretto e indiretto. Il sindaco di Milano Beppe Sala e l’ex direttore dell’Agenzia dell’Entrate Ernesto Maria Ruffini hanno provato con tempi e modi diversi ad annunciare (o a far annunciare agli altri) la discesa nel campo largo, tastando il terreno per vedere l’effetto che farebbe. Una corsa che vede tra i nomi in ballo anche Paolo Gentiloni.
A riportare tutti alla cruda realtà ci ha pensato Mario Draghi. Durante il simposio annuale del Centre for Economic Policy Research di Parigi, ha spiegato che, senza riforme, tra venticinque anni il Pil dell’Ue sarà uguale a oggi. L’ex presidente del Consiglio ha fatto capire che la gravità è permanente, poi vedremo se ci sarà anche un centro.
In questo ciclo di slogan, retroscena, annunci e contro annunci, Luigi Marattin prova a non parlare di nomi, ma di temi. Il deputato ex di Italia Viva e del Terzo Polo, fondatore di Orizzonti Liberali, sta cercando di costruire da tempo le fondamenta di un nuovo partito liberaldemocratico partendo prima dai problemi da risolvere e poi parlando di leader, alleanze, etichette. Ma siccome i giornali sono lo specchio della società e questa settimana la politica offre la solita minestra, gli abbiamo chiesto cosa ne pensa dei vari protagonisti della corsa al centro.
Onorevole Marattin, Beppe Sala potrebbe far parte di un nuovo soggetto politico liberaldemocratico?
Beppe – che conosco e stimo – ha detto le stesse cose quando a inizio ottobre è venuto a Milano a presentare con Antonio Polito il mio libro, (“La Missione Possibile”, edito da Rubbettino, ndr). E in quell’occasione pubblica ho detto a lui le stesse cose che dico ora, che dico da anni e che ho ripetuto al vostro festival a Milano a fine novembre: non esiste alcuno spazio per un centro liberal-democratico collocato nel centrosinistra. Gli elettori moderati di quel campo votano già Partito democratico. Non esiste nel paese un’area di persone che ora non votano centrosinistra, ma che sarebbero disposte a farlo (mandando Maurizio Landini a fare il ministro del Lavoro) solo se a chiederglielo è qualcuno con il linguaggio più moderato e vestito meglio.
Perché?
Per una ragione molto semplice: le politiche liberali sono del tutto incompatibili con la cifra politica del centrosinistra attuale. Si vuole creare un “centro liberale” di persone che apprezzano il Jobs Act per sostenere una coalizione che sta raccogliendo le firme contro il Jobs Act? Di persone che vogliono il nucleare per supportare una coalizione contro il nucleare? Di persone assolutamente pro-Ucraina e pro-occidente per supportare una coalizione in cui una parte sostanziale è per la resa dell’Ucraina e contro la Nato? Di persone che vogliono pagare gli insegnanti sulla base del merito per appoggiare una coalizione che considera “meritocrazia” una parolaccia? Di persone che sono per la riduzione delle tasse al ceto medio per appoggiare una coalizione che ogni cinque minuti sogna la patrimoniale? È impossibile. Questo atteggiamento è figlio di un’illusione che già tanti danni ha fatto nei decenni scorsi.
Quale?
Che i voti si spostano come scatoloni, che si possono impilare a piacimento dello “stratega” di turno per formare una pila più altra dell’avversario. Ma è una falsità: gli elettori non si fanno più prendere in giro da proposte politiche così, da programmi di duecentosessantacinque pagine, da coalizioni con dentro tutto e il suo contrario.
La figura di Ernesto Maria Ruffini è stata evocata sui giornali come possibile federatore di un nuovo centro politico. Secondo lei, perché il suo nome è emerso proprio ora e quale spazio politico potrebbe realmente occupare una leadership capace di aggregare i moderati, senza cadere nelle dinamiche già viste in passato?
È lo stesso identico ragionamento di prima, con la differenza che Ernesto (che stimo e apprezzo, come Sala) ha probabilmente alle spalle qualche sponsor importante. Ma anche questa pare un’operazione da “scatoloni che si impilano”. In Italia chi oggi non vota non sta aspettando uno con la faccia buona che lo porti per mano, dopo avergli fatto fare due giri di valzer, a sostenere i populisti di destra o di sinistra. Sta aspettando una forza politica autenticamente liberal-democratica, autonoma dai due poli, che sconfigga per sempre i populismi e non cerchi di “moderarli”, finendo poi per esserne invece fagocitato. È questo lo spazio politico che oggi c’è in Italia. I moderati di centrodestra e di centrosinistra votano già, magari a malincuore, Forza Italia e Pd. Ma questo concetto non si riesce a far capire a quel pezzo di ceto politico che, da anni, gioca sempre a fare il Grande Architetto. Con i risultati che si sono visti.
Il presidente argentino Javier Milei ha partecipato al festival di Atreju, esortando a combattere la sinistra «come una falange romana». Ma i suoi programmi liberisti sembrano l’opposto di quanto fatto dal governo Meloni. Secondo lei Fratelli d’Italia ha davvero compreso il suo messaggio o si è lasciato abbagliare dal personaggio?
La cosa più probabile è che i militanti di Fratelli d’Italia abbiano scambiato Milei per qualcun altro. Non c’è altra spiegazione possibile. Milei nel suo paese ha ridotto la spesa pubblica del trenta per cento e negli stessi minuti in cui riceveva la standing ovation da Fratelli d’Italia, il governo Meloni stava presentando un emendamento alla legge di bilancio in cui si istituiva il bonus frigoriferi e lavatrici. Milei ha fatto più di ottocento liberalizzazioni in Argentina, dai taxi agli affitti passando per praticamente qualsiasi aspetto dell’economia. Due settimane fa, questo governo ha fatto approvare alla Camera una legge, dal nome “Concorrenza”, ma che in realtà è uno degli atti più anti-concorrenziali che questa Repubblica abbia mai visto, con norme su sanità, buoni-pasto e taxi che riportano alle corporazioni più che a un’economia moderna. Ed è la stessa attenzione alle corporazioni che porta questa maggioranza a difendere tutte le rendite esistenti, dai tassisti ai balneari passando per il commercio e i servizi pubblici. In generale, Milei è un fan sfegatato del capitalismo e del mercato. I ministri di Fratelli d’Italia, per non parlare dei dirigenti e dei militanti, si esprimono regolarmente contro le imprese multinazionali e considerano il mercato un bieco strumento della tecnocrazia europea. Quindi non c’è altra spiegazione: l’hanno scambiato per qualcun altro. Sarebbe come se un ultrà della Lazio entrasse in un Roma club e ricevesse una standing ovation.
A proposito di tifoserie e curve: sempre ad Atreju, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha esaltato la stabilità e compattezza della sua maggioranza, affermando di essere immune alle «gogne costruite ad hoc». Crede che queste parole riflettano la sicurezza di una leader forte o nascondano la difficoltà di uscire dal ruolo della vittima?
In Italia funziona così da un po’: maggioranza e opposizione si scambiano i ruoli, accusandosi a vicenda degli stessi identici comportamenti che mettevano in atto quando si trovavano al governo. L’abuso dei decreti legge e della fiducia, lo slittamento dei tempi di esame della legge di bilancio, le prassi più scorrette e inefficienti nell’attività parlamentare, la delegittimazione dell’opposizione, il perenne ruolo di vittima di presunti complotti. Tutto si ripete uguale. È, secondo il mio modo di vedere, il frutto di un bipolarismo che si vuole artificialmente forzare in un paese che non è mai stato bipolarista, al contrario delle nazioni anglosassoni. E poi, certo, è anche e forse soprattutto il frutto di una classe politica la cui qualità sta colando a picco da decenni.
Schlein ha rispolverato una campagna populista per criticare la scelta del governo di aumentare lo stipendio dei ministri, poi revocata. I toni sono sembrati simili a quelli del Movimento 5 stelle delle origini. Il dialogo dei liberaldemocratici col Pd è ormai compromesso fin quando lei sarà segretaria?
Negli ultimi quindici anni, il Pd per due volte ha provato a virare verso un liberalismo riformatore: con Walter Veltroni nel 2007 e poi con Matteo Renzi nel 2013. Entrambe le esperienze sono finite in modo traumatico, e per un motivo molto semplice: il corpo di quel partito, il suo Dna, il suo humus storico-culturale e politico, non è compatibile con la rivoluzione liberale che serve all’Italia di oggi. E pertanto, dopo un po’ espelle in malo modo chiunque ci voglia provare, anche se riceve (ed è questo il tratto più sconvolgente) la legittimazione congressuale. La soluzione ci sarà solo quando da quelle parti prenderanno atto che tenere insieme Landini e Tommaso Nannicini, Beppe Provenzano e Irene Tinagli, Lorenzo Guerini e Marco Tarquinio non è “la sana espressione di un pluralismo culturale che dà ricchezza”. È, molto più semplicemente, una cosa impossibile. È ora che in questo paese riorganizziamo le offerte politiche sulla base di una maggiore omogeneità culturale, e le facciamo competere liberamente di fronte agli elettori. Se il sistema elettorale sarà un doppio turno maggioritario, allora una di queste offerte politiche – quella che vincerà il ballottaggio – governerà. Se il sistema sarà invece proporzionale, allora si faranno le necessarie alleanze. Ma almeno sulla base della chiarezza, dei pesi ricevuti dall’elettorato, e sulla base di un accordo di governo alla luce del sole e trasparente. Che è ben diverso dal presentare agli elettori coalizioni raffazzonate con dentro tutto e il suo contrario.
A Parigi Mario Draghi ha messo in discussione il modello economico europeo basato su esportazioni e bassi salari, avvertendo del rischio di stagnazione. Un problema europeo, ma anche italianissimo.
Draghi ha ripetuto quello che sta dicendo ormai da diversi anni, senza ricevere troppo ascolto purtroppo. Ed è riassumibile con un concetto molto semplice. In Europa oggi ci sono due macro-problemi, da cui derivano tutti gli altri: il primo si chiama crescita troppo lenta della produttività, e il secondo si chiama dimensione di scala insufficiente per essere protagonista del mondo globalizzato. Entrambi i problemi però hanno un’unica soluzione: integrare i mercati a livello continentale. Un unico mercato dei capitali, una vera unione bancaria, un unico mercato dei beni e dei servizi, un unico mercato finanziario con un safe asset europeo che consenta anche il rafforzamento del bilancio federale Ue e quindi il finanziamento europeo di alcuni beni pubblici (difesa, sicurezza, ricerca, grandi politiche di competitività e di supporto alle transizioni). O facciamo questo, o i singoli Stati nazionali soccomberanno nella competizione globale. Anche perché alcuni di essi, come la Germania, non hanno ancora fatto i conti con la fine di un ciclo di sviluppo basato non solo sulle esportazioni verso la Cina, ora che quel paese ha superato la fase di sviluppo basata sulle importazioni e si sta anzi dedicando all’export; ma anche sul ciclo dell’industria automobilistica che come noto si trova in grave crisi strutturale, e sulle importazioni di energia a basso prezzo dalla Russia. Altri paesi, come l’Italia, si trovano in una crisi di lungo periodo, tanto da avere una produttività totale dei fattori che addirittura non cresce da inizio anni Settanta del secolo scorso.
Il governo Meloni ha la maturità politica per promuovere la proposta di Draghi in sede europea?
Dipende da quale Meloni stiamo parlando. Quella che in dieci anni di opposizione è passata dall’un per cento al trenta per cento, sicuramente no. Perché ha costruito quel consenso (e quella classe dirigente) sulla base del peggior sovranismo populista possibile: anti-europeo, anti-integrazione, e anti-mercato. La Meloni che invece ora a Palazzo Chigi si sforza di essere diversa, ma ha due problemi. Da un lato si vede che si forza, perché contraddice non solo gli ultimi dieci anni ma probabilmente tutto il suo impegno politico di una vita, che non era certo improntato al liberalismo di mercato. Dall’altro, in tutta evidenza, non ha la classe dirigente adatta per fare questo salto. Dopodiché, è un vero peccato: è un fatto incontrovertibile che il governo italiano oggi sia, tra i grandi paesi europei, quello più stabile. È un peccato non sfruttare questa occasione.
La classifica del Sole24Ore sulla vivibilità delle città è impietosa per il sud Italia. Lei è nato a Napoli e cresciuto a Brindisi: può capire meglio di altri i problemi del Meridione, Quale sarebbe la sua prima proposta per risollevare l’economia del Mezzogiorno, se fosse al governo?
Il Sud ha energie, vitalità e competenze pari se non superiori a quelle di altre parti d’Italia. Semplicemente, sono intrappolate in un contesto di clientelismo e di immobilità, in cui conta ancora più chi conosci rispetto a quello che sai. È per questo che le energie migliori se ne vanno, perché considerano la situazione irrecuperabile. Al Sud allora non servono più soldi: serve imparare a gestire meglio quelle che si hanno. E non servono ricette magiche: serve una classe dirigente in grado di andare nei bar di periferia e dire a quelli che sono stati illusi che la soluzione fosse un sussidio di Stato o un po’ di furbizia, che è possibile costruire un ambiente in cui le tue capacità e il tuo impegno verranno premiati anche se non hai le relazioni che contano. È questa la rivoluzione che serve. E noi di Orizzonti Liberali, che partecipiamo con altri amici alla Costituente Liberal-Democratica che entro il 2025 diventerà partito, siamo così matti da credere che un messaggio del genere nel nostro Sud possa funzionare, e funzionare bene.
La recente riforma del Codice della Strada di Salvini prevede norme più severe per la sicurezza, attirando critiche di cittadini illustri come Vasco Rossi che ha criticato la severità di alcuni provvedimenti. Da che parte sta?
Sto dalla parte di Vasco. Non perché non abbia a cuore la sicurezza stradale, ma perché alcune di quelle norme con la sicurezza non hanno davvero nulla a che vedere, servono solo a fare spot elettorali a Salvini in cui lui è lo sceriffo legalitario. La comunicazione politica in Italia, da tempo, non ha nulla a che fare con la realtà delle norme o degli atti, ma solo con ciò che si vuole comunicare.