Cassese Se l’efficenza si fa in quattro

Mentre alcuni protagonisti dello spazio pubblico sembrano impegnati nella caccia alle farfalle sotto l’arco di Tito, che cosa bolle nel pentolone dello Stato? Che cosa si muove e quali azioni intraprendere per rendere l’operato dei poteri pubblici più efficace?
Proverò a rispondere a queste domande in quattro punti, dedicati ai rapporti tra straordinaria e ordinaria amministrazione, tra freno e acceleratore, tra centro e periferia, tra lealtà e fedeltà.

Primo: in questi ultimi cinque anni, ai compiti pubblici ordinari si sono affiancati compiti straordinari, prima per contrastare la pandemia, poi per la realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Questi nuovi compiti hanno richiesto mezzi finanziari addizionali, organi «ad hoc», procedure nuove. I poteri pubblici sono ora dinanzi a un bivio: possono ritornare ai metodi tradizionali, oppure possono valersi di queste nuove esperienze per ammodernare, semplificare, accelerare tutta la propria struttura. Non è chiaro quale strada sarà scelta e non è neppure chiaro se qualcuno si sia posto il problema di imparare dalle esperienze fatte, trasferendole nel funzionamento ordinario dei poteri pubblici.

Secondo: nell’organismo pubblico, i tempi nuovi hanno prodotto il formarsi di due tendenze contraddittorie, l’una che richiede più efficienza ed efficacia dell’azione pubblica, l’altra che richiede più trasparenza e maggiori controlli.
La seconda tendenza però si è scontrata con la prima, perché più organismi di controllo e una più intensa vigilanza hanno rallentato, direttamente o indirettamente, l’azione pubblica. Basti pensare che questa è l’unica parte del nostro ordinamento sottoposta al giudizio di ben quattro controllori, i giudici amministrativi, contabili e penali, più l’autorità anticorruzione. I pubblici poteri sono ora a un bivio: possono continuare a nutrire sfiducia negli apparati pubblici, pagandone un costo altissimo, oppure ridurre i controlli (ovvero renderli meno ingombranti), e poter così valersi di un organismo ben funzionante e rispondente ai compiti affidati ad esso.

Terzo: si è ripresentato in modo nuovo un problema che ha attraversato la storia italiana, quello del rapporto tra centro e periferia. Infatti, da un lato, i grandi servizi a rete, come scuola, sanità e sistema statistico, hanno subito strappi che le reti non tollerano; dall’altro, la levata di scudi contro l’autonomia differenziata è divenuta in larga misura una critica della stessa autonomia e le forze autonomistiche non hanno fatto né capire né pesare i vantaggi per i cittadini del «local government» quale disegnato dalla Costituzione. Si apre anche qui un bivio: fare un passo indietro, ricentralizzando funzioni trasferite fuori dello Stato, oppure continuare sul percorso autonomistico, ma misurando la capacità amministrativa delle periferie, quale si è formata nel mezzo secolo di vita.

Quarto: nel corpo dei poteri pubblici, negli ultimi anni, si è andato producendo un duplice fenomeno. Da un lato, lavorare per i poteri pubblici è divenuto meno interessante, per una serie di motivi, dal calo demografico all’immagine deteriorata del «servitore dello Stato»: anche per questo, i criteri di scelta e di selezione (i cosiddetti concorsi, quando ci sono) sono divenuti meno rigorosi. Dall’altro, l’affacciarsi al governo di nuove forze politiche e la loro «passion des places» (come veniva definita nell’Ottocento francese la fame dei posti pubblici) hanno prodotto una spinta ad allargare e moltiplicare il nefasto sistema delle spoglie introdotto dai governi di centro sinistra della fine del secolo scorso. La prima tendenza ha agito nei livelli iniziali, la seconda ai livelli alti. L’una e l’altra ripresentano un dilemma che pochi governanti hanno saputo risolvere in Italia. Se, infatti, la classe politica vuole contare su personale fedele, paga il costo di avere cattivi esecutori. Se, invece, vuole avere buoni «managers», deve avere la forza di non fare entrare lo spirito di parte nella gestione pubblica, perché una classe dirigente amministrativa leale, ma alla quale non è richiesto un attestato di fedeltà, imparziale e pronta a servire la politica e non i politici, può farlo in modo più efficace di persone scelte per la loro «partisanship».

Queste sono le scelte che un governo che governi, cioè che abbia una durata almeno quinquennale, deve fare, se vuole ridurre la distanza tra quello che le norme dispongono e la realtà.
Purtroppo, però, intorno a questi problemi v’è il silenzio. Non è chiaro se chi governa ne abbia contezza. A loro volta, i burocrati – managers, sempre vilipesi, si sono chiusi nel silenzio e non fanno sentire la loro opinione sulla macchina amministrativa, che conoscono dall’interno e meglio di altri. L’opinione pubblica paga il costo della inefficienza nella gestione dei grandi servizi collettivi, se ne lamenta, ma non riesce ad individuare soluzioni, né a prendere iniziative comuni «dal basso», come si diceva una volta.
Una pubblica amministrazione invecchiata e contraddittoria, come quello italiana, dove anche le persone capaci finiscono per rassegnarsi all’inerzia quotidiana, può lentamente spegnere lo spirito d’iniziativa e danneggiare il Paese. Ma, alla lunga, il costo del non decidere è pagato non solo dalla collettività, ma dalla stessa classe politica.