Quando a metà degli anni Ottanta ero un ragazzino che iniziava a seguire le cose politiche e si appassionava – auspice Marco Pannella – alle lotte dei dissidenti dell’Europa orientale imprigionati nella cattività sovietica, George Soros era già da un decennio uno dei principali sostenitori e finanziatori della resistenza dei polacchi, degli ungheresi e dei cecoslovacchi, come lo sarebbe stato, in tempi più recenti, delle battaglie europeiste degli ucraini e di tutti i popoli asserviti all’imperialismo russo nel lebensraum putiniano.
La colpa che la destra sovranista mondiale non riesce a perdonare a questo ebreo ungherese scampato alla Shoah è di avere difeso l’ideale della società aperta – di qui il nome della sua fondazione politica: Open Society – nella sua forma più radicalmente liberale e avventurosamente cosmopolitica, e di avere previsto che nel ripiegamento identitario il mondo post-sovietico sarebbe finito ostaggio dei demoni del nazionalismo blut und boden e sarebbe tornato a rappresentare, come poi è puntualmente avvenuto, una minaccia globale e un pericolo esistenziale per l’ordine politico euro-atlantico.
Non stupisce che il nemico giurato di Soros in questi anni sia stato Victor Orbán, che in gioventù è stato uno dei tanti dissidenti anticomunisti adottati e stipendiati dalla Open Society Foundation, e che nella maturità ha incarnato il mostro di cui il suo vecchio mecenate aveva presagito l’arrivo e il trionfo.
Non stupisce dunque neppure che l’antica sodale del Quisling putinano di Budapest, Giorgia Meloni, da anni ripeta a pappagallo le infamie contro il grande burattinaio della sostituzione etnica ed economica della vecchia Europa, cioè contro il feticcio dell’usurpazione anti-patriottica disegnato, secondo i canoni dell’iconografia politica antisemita, dai nuovi Protocolli dei Savi di Sion del cospirazionismo planetario.
L’odio per Soros riporta a Putin e unisce in una grande famiglia tutti i putiniani di ieri, di oggi e di domani, quelli in servizio e quelli in sonno, quelli moderati e realisti e quelli entusiasticamente idealisti, che si eccitano a leggere su X i post fotocopia di Elon Musk e di Alexander Dugin sulla decadenza occidentale e sulla necessità di un ordine mondiale di nuovo conio.
Di questa famiglia, con tutte le accortezze e i limiti imposti dal ruolo, continua a far parte anche Meloni, che fino al 24 febbraio 2022 guardava a Putin come a un imprescindibile alleato sovranista, si felicitava del suo straripante consenso democratico e denunciava le «folli sanzioni» contro la Russia, dopo l’annessione della Crimea e l’invasione del Donbas, mentre il suo – con rispetto parlando – intellettuale di riferimento, Giampaolo Rossi, attuale capo della Rai, malediva «il governo fantoccio di Kyjiv ennesimo prodotto delle rivoluzioni democratiche costruite a tavolino nei think tank d’oltreoceano e nei consigli d’amministrazione delle banche d’affari e dei fondi d’investimento degli amici di Soros»
Della famiglia putiniana allargata, con tutta la dismisura dei suoi mezzi e dei suoi fini, è entrato ora a far parte anche Elon Musk, rapidamente convertitosi per ragioni affaristiche a principale agente del caos mediatico-politico globale, santo patrono del nazistume europeo e colonna algoritmica del putinismo occidentale.
Che dunque Giorgia Meloni diffami le ingerenze di Soros e nobiliti il free speech di Elon Musk, cavilli grillinamente sui contributi trasparenti del primo ad associazioni e partiti, e trascuri benignamente il controvalore economico del sostegno di X all’internazionale nichilista degli amici di Mosca, non è evidentemente un problema per lei, che è perfettamente rispecchiata in questo giudizio. Semmai dovrebbe esserlo per quanti si ingegnano ogni giorno a edificare il monumento della nuova Giorgia, grande promessa della politica democratica.