Le «guerre culturali» e le «politiche dell’identità», la presunzione di dividere e raggruppare gli esseri umani in base a etnia, genere, corpo, orientamento sessuale, discendenza, classe sociale, cioè l’opposto di quanto fecero le grandi rivoluzioni del Settecento, sta frammentando un po’ alla volta la nostra società.
Anche la destra è vittima di questa cultura che pure dichiara di aborrire. Ce n’è un segno evidente nel suo «panpenalismo», l’ambizione cioè di governare la crescente complessità del reale con il codice penale, moltiplicando e spezzettando i reati, le fattispecie e le pene: nella sua legislazione si distingue la rivolta in carcere dalla rivolta in una stazione ferroviaria, una cosa è la sim comprata dal migrante senza permesso di soggiorno un’altra se l’acquista un migrante regolare, e la presunzione di innocenza dell’agente che usa un’arma deve essere maggiore di quella che la Costituzione già garantisce a ogni cittadino. E pensare che il ministro Nordio quando era solo un giurista diceva: «Le pene non devono essere aumentate, semmai diminuite».
La destra riduce i diritti delle minoranze in nome delle maggioranze, e per questo è più popolare. Il mondo non deve più andare al contrario, è il messaggio che intende rivolgere al suo elettorato, del quale il generale Vannacci è la più radicale e scorretta espressione, al punto che vorrebbe distinguere anche tra omosessuali e «normali», tra italiani e italiani dai tratti somatici non italiani, e così via.
Però la democrazia è, tra le altre cose, protezione delle minoranze dal potere delle maggioranze. Dice la nostra Costituzione all’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Ogni volta che lo si dimentica si cede a una seduzione illiberale.
La sinistra, che non è al governo, combatte invece le sue «guerre culturali» nelle forme della politica e della sociologia. Lo fa, al contrario della destra, in nome delle minoranze; il che, come sappiamo, è una posizione più scomoda perché meno popolare. Ma la complessità dei tempi che viviamo travolge anche la sua logica. Perché sempre più spesso i diritti di eguaglianza e di libertà per cui si è storicamente battuta sono messi in discussione dalle stesse minoranze che oggi difende.
Prendiamo il caso del taharrush gamea , questo rito di molestia collettiva alle donne, a quanto pare nato al Cairo durante le proteste di Piazza Tahrir e arrivato insieme con le seconde generazioni dei migranti, via Colonia e Salisburgo, fino a piazza del Duomo a Milano. Non si può negare che si tratti di un atteggiamento culturale, non si può dunque contrastare senza sottoporre a critica aspetti cruciali della cultura araba e islamica; ma la sinistra più politicamente corretta esita a chiamarlo per nome e cognome e a condannarlo in questi termini, temendo di concedere al razzismo. Il cortocircuito mette così in competizione i diritti delle donne (e anche il diritto dei cittadini all’ordine pubblico) con quelli degli immigrati e dei loro figli, che nel frattempo si sono fatti adulti.
Un altro esempio: le associazioni femministe, figlie di un tempo antico in cui ci si batteva per l’emancipazione e la libertà delle donne, protestano contro i testi misogini dei brani di Tony Effe. Ma tutte le giovani star della musica contemporanea si ribellano contro la «censura», in nome della libertà di espressione. Si può essere abbastanza certi che non l’avrebbero fatto in difesa di testi sospettabili invece di omofobia o di transfobia. Al tempo delle battaglie identitarie anche i diritti cambiano, si sfrangiano e possono confliggere.
La «cultura della vittima» ha preso il posto di ogni valutazione storica e sociale. Qualche giorno fa abbiamo tirato un respiro di sollievo perché è stato assolto per legittima difesa un giovane che ha ucciso con 34 coltellate il padre che maltrattava la madre. Ma nelle stesse ore ci siamo indignati perché è stato condannato a «soli» trent’anni di carcere, invece che all’ergastolo, un settantenne che aveva ucciso moglie e figlia (trenta più settanta fa cento, carcere comunque a vita). Il giudice ha scritto nella sentenza un’assurdità, e cioè che i motivi del gesto erano «umanamente comprensibili». Ma dovremmo sapere che i processi non sono manifesti politici, non sono celebrati in nome dello spirito del tempo contro categorie di persone (in questo caso i maschi misogini e violenti); che ogni caso è a sé, e che il libero convincimento del giudice, così come le attenuanti di legge, si applicano a tutti indistintamente.
La cronaca ci mette ogni giorno davanti a vicende che non dovremmo giudicare con il criterio dell’identità. Figlio di un migrante egiziano era il giovane morto a Milano su un motorino che non si è fermato all’alt dei carabinieri, alla fine di un drammatico inseguimento all’americana. Ma migrante di origine egiziana è anche il padre, che ha dato a tutti, destra e sinistra, legalitari e rivoltosi, forze di polizia e manifestanti di piazza, una grande lezione di educazione civica, basata sulla differenza tra i concetti di giustizia e vendetta.
Il tempo dell’«identità» non sa concepire la persona se non come parte. Dovremmo resistergli. Perché la persona, diceva Ratzinger, è un tutto che si riferisce a un tutto .