Non sono sicuro che la bocciatura del referendum sull’Autonomia differenziata da parte della Corte costituzionale sia una buona notizia per la sinistra, come sostiene oggi su Linkiesta Mario Lavia, convinto che la riforma leghista sia stata già fatta a pezzi dalla Consulta e che la consultazione referendaria sarebbe stata per le opposizioni una battaglia molto rischiosa. Sono vere entrambe le cose, naturalmente. Ma è anche vero che i referendum rimasti in campo, quelli promossi dalla Cgil di Maurizio Landini sul lavoro (in particolare contro il cosiddetto Jobs Act del Pd di Matteo Renzi) e quello dei radicali sull’accorciamento dei tempi per ottenere la cittadinanza, a naso, sembrano un terreno ancora più favorevole per il governo, e infinitamente più complicato per l’opposizione, e specialmente per il Pd.
Un partito i cui dirigenti e parlamentari, al novanta per cento, hanno votato, sostenuto e difeso il Jobs Act. La loro posizione, peraltro, è resa ancora più imbarazzante dal fatto che Schlein, avendo contrastato la riforma a suo tempo, non ha esitato a sottoscriverne la proposta di abrogazione. D’altronde, questo è quello che succede quando si decide di consentire anche a chi non è iscritto a un partito non solo di votare per decidere chi lo guiderà, ma persino di candidarsi a guidarlo.