Contrordine, Franceschini smonta l’alleanza strategica con i 5 Stelle

Da antico sostenitore del ritorno al proporzionale, e prima ancora al principio di realtà, dovrei forse gioire per la svolta proposta da Dario Franceschini nella sua intervista di oggi a Repubblica, in cui invita i partiti di opposizione ad andare alle elezioni «ognuno per conto suo, valorizzando le proprie proposte e l’aspetto proporzionale della legge elettorale», perché in fondo «è sufficiente stringere un accordo sul terzo dei seggi che si assegnano con i collegi uninominali per battere i candidati della destra». Da critico irriducibile del «campo largo» o «alleanza strategica» (come la chiamava Franceschini) con il Movimento 5 stelle, e di tutto lo straziante e inconcludente processo unitario in cui i dirigenti del Pd si sono impantanati sin dai tempi di Nicola Zingaretti, probabilmente dovrei essere il primo a esultare per queste parole. «Serve realismo», dice ora il più convinto sostenitore di tutti i segretari, gli indirizzi e gli schemi di alleanze precedenti (nonché, ovviamente, grande elettore di Elly Schlein). «I partiti che formano la possibile alternativa alla destra sono diversi e lo resteranno. È inutile fingere che si possa fare un’operazione come fu quella dell’Ulivo. L’Ulivo non tornerà, da quella fusione è già nato il Pd». Dopodiché, non è nemmeno chiarissimo cosa resterà, in questo schema, dello stesso Partito democratico, considerata anche l’esortazione di Franceschini, buon ultimo, a fondare un partito di centro «che parli di più ai moderati», allo scopo di «allargare l’offerta elettorale».
Al di là del merito, colpisce la disinvoltura con cui da decenni gli stessi dirigenti passano da una linea a quella diametralmente opposta
A parte questa singolare e perlopiù sfortunata abitudine di promuovere i partiti altrui, vizio antico dei dirigenti del Pd che è in realtà l’altra faccia della loro ossessione per il bipolarismo e il maggioritario, condivido ogni parola dell’analisi franceschiniana, ma non riesco ugualmente a entusiasmarmi. Al di là del merito di questa ennesima svolta, quello che mi colpisce di più è la disinvoltura con cui da trent’anni le stesse quindici o venti persone si rimettono ogni giorno a montare e smontare partiti e coalizioni, alleanze strategiche e fronti popolari: questo grande meccano cui è stata ridotta la politica. O forse dovrei dire piuttosto questo infinito gioco dell’oca. E il fatto che il Pd (o almeno una sua parte, ma una sua parte influente) torni adesso alla casella che personalmente preferisco mi sembra comunque meno significativo del fatto che i suoi dirigenti abbiano già ricominciato ad aprire il tabellone e tirare i dadi. L’incipit è sempre lo stesso: «Dobbiamo evitare di commettere gli errori già fatti in passato». E cioè, in questo caso: «Passare i prossimi tre anni ad avvitarci in discussioni: primarie sì o primarie no, Renzi sì e Conte no, o viceversa, tavoli di programma, discussioni sul nome». Parole che m’immagino pronunciate con il tono con cui in Animal House dicevano all’amico cui avevano appena sfasciato la macchina: «Suvvia, vuoi passare il resto della vita a piangere sui tuoi errori? Hai fatto uno sbaglio, ti sei fidato di noi».