Ma è davvero «la più stupida guerra commerciale della storia»? Ecco qual è la logica di Trump

Sforzarsi di spiegare Donald Trump è lo sforzo più ingrato, antipatico e impopolare del momento.

I suoi dazi vengono condannati non solo dai Paesi che li subiscono, ma anche da un ampio schieramento di forze negli Stati Uniti: giornali conservatori come il Wall Street Journal (che la definisce «The dumbest trade war in history», «la più stupida guerra commerciale della storia»), economisti di fede democratica o repubblicana, sommergono di critiche la sua offensiva protezionista.

Le cosiddette oligarchie economiche, che vengono descritte semplicisticamente come un blocco di potere compatto e dittatoriale, in realtà sono divise e turbate dalla prospettiva di una guerra commerciale globale.

Tanta costernazione e sorpresa dovrebbe… sorprenderci, perché Trump non ha mai smesso di promettere dazi: non solo in quest’ultima campagna elettorale, ma anche in quelle precedenti, sicché sono uno dei suoi cavalli di battaglia dal 2015 e anche prima. Per un decennio abbiamo voluto credere che lui scherzasse, e prendesse in giro i suoi elettori?

Inoltre, i dazi lui li ha già messi, nel 2018; in seguito furono in larga parte confermati o persino aumentati da Joe Biden.

Perciò è utile fare un salto indietro, e con la macchina del tempo risalire a quella prima raffica di dazi, che già sette anni fa venne accolta da allarme e condanne. Per velocizzare le ricerche e sintetizzare il risultato interrogo ChatGPT con la seguente domanda: quali furono le reazioni ai dazi di Trump nel 2018? Ecco una parte della risposta, che ho dovuto a mia volta abbreviare:

«Dopo che Donald Trump introdusse il primo round di dazi nel 2018, gli economisti reagirono con grande preoccupazione, anche se le opinioni variarono a seconda delle loro inclinazioni ideologiche. Ecco le principali reazioni. Molti economisti, tra cui quelli della Federal Reserve e del Fondo Monetario Internazionale, avvertirono che i dazi avrebbero potuto rallentare la crescita economica aumentando i costi per le imprese e i consumatori. Poiché i primi dazi riguardavano l’acciaio e l’alluminio, i settori che dipendevano da questi materiali – come quello automobilistico e delle costruzioni- affrontarono un aumento dei costi di produzione. Gli economisti erano particolarmente preoccupati per le possibili ritorsioni da parte della Cina, dell’Unione Europea, del Canada e del Messico. Queste paure si concretizzarono rapidamente, poiché i principali partner commerciali risposero con dazi propri sui beni americani, aumentando le tensioni commerciali e l’incertezza nei mercati globali. I mercati finanziari reagirono negativamente. Il valore delle azioni di aziende dipendenti dal commercio globale, come Boeing, Caterpillar e General Motors, subì forti oscillazioni a causa dell’incertezza sulla redditività a lungo termine e sulle interruzioni delle catene di approvvigionamento. Gli economisti specializzati in agricoltura evidenziarono i rischi per gli agricoltori statunitensi, che dipendono fortemente dalle esportazioni. La Cina, in particolare, rispose con dazi su prodotti agricoli americani come soia, carne di maiale e altri beni agricoli. Ciò portò a un calo dei prezzi e a difficoltà finanziarie per gli agricoltori, spingendo il governo degli Stati Uniti a introdurre miliardi di dollari in sussidi agricoli per compensare le perdite. Molti gruppi imprenditoriali, tra cui la U.S. Chamber of Commerce e la National Association of Manufacturers, si opposero ai dazi, avvertendo che avrebbero danneggiato le imprese americane aumentando i costi delle materie prime e disturbando le relazioni commerciali globali. In sintesi, il consenso generale tra gli economisti era che i dazi imposti da Trump avrebbero causato più danni che benefici, portando a costi più elevati, perdite di posti di lavoro nei settori colpiti e interruzioni nel commercio globale. Alcuni ritenevano che potessero aiutare industrie specifiche, ma la maggior parte li considerava un metodo inefficace per affrontare gli squilibri commerciali e la concorrenza con la Cina».

Come si vede da questo riassunto confezionato con l’aiuto di ChatGPT, «siamo già passati da qui». La fase attuale non è una novità assoluta.

I dazi li abbiamo sperimentati e siamo ancora vivi per raccontarcelo.

L’amministrazione Biden non ritenne opportuno eliminarli, quasi mai; anzi in certi settori e contro certi paesi (la Cina) Biden scelse di rincarare la dose.

Il bilancio finale? Non faccio un’affermazione arbitraria o sconvolgente se vi rivelo questo: la fine del mondo non c’è stata. Anzi, per quanto riguarda l’America, la sua economia non è mai stata così forte: crescita del Pil, occupazione, salari, tutto è positivo. Il divario di prosperità e dinamismo tra l’America e tutti gli altri si è accentuato. Di negativo c’è l’inflazione, che però esplose molto più tardi dei dazi e fu spiegata con le penurie della pandemia.

In ogni caso la base popolare che sostiene Trump può sentirsi confortata nella duplice idea che
1) gli esperti sono inaffidabili;
2) i dazi non sono quella tragedia che si dice.

Questa diffidenza peraltro ha radici antiche. Sono le radici profonde del trumpismo, che ebbe un precursore dimenticato nell’industriale Ross Perot, fiero avversario del trattato di libero scambio Nafta (con Canada e Messico) ai tempi di George Bush padre e di Bill Clinton. Gli esperti all’inizio degli anni Novanta promisero alla classe operaia americana un’Età dell’Oro grazie all’apertura delle frontiere alle merci e all’immigrazione. Seguì un periodo di smantellamenti di interi settori industriali; e di tensioni sociali nelle metropoli più segnate da flussi migratori disordinati. L’Età dell’Oro della globalizzazione ebbe, all’interno della società americana, i suoi vincitori e i suoi perdenti. La dinamica politico-elettorale vide la sinistra catturare soprattutto i consensi dei vincitori. Con Trump emerse una nuova destra che capitalizzava il risentimento popolare contro il tradimento delle élite (aggravato dallo choc della crisi finanziaria del 2008).

Il Fentanyl, che figura così in alto nelle diatribe di oggi, è il simbolo tragico di quelle che il premio Nobel Angus Deaton definì le «morti per disperazione» in un’America di bianchi poveri che la sinistra non rappresentava più, perché voleva difendere solo le minoranze etniche e di gender. Il resto è cronaca recente.

Non bisogna stupirsi se una larga parte degli elettori di Trump diffida delle critiche degli economisti: li considera da tempo «al servizio del nemico». In quanto ai mercati, con un orecchio ascoltano gli economisti che annunciano un’altra Apocalisse, con l’altro orecchio ascoltato gli ordini degli investitori: comprate dollari. Evidentemente chi ha capitali da rischiare continua a scommettere su una vittoria dell’America, non sulla sua auto-distruzione.