L’aggressione russa all’Ucraina e l’assalto di Donald Trump all’America e al mondo libero stanno finalmente costringendo gli europei a immaginare che cosa vorranno fare da grandi, anche se – come dice il politologo Lucio Corsi che riascolteremo con piacere a Sanremo – ci stavamo ormai rassegnando al principio secondo cui in Europa «nemmeno da vecchi si sa cosa faremo da grandi».
Scrive l’Economist che gli europei oggi si dividono in quattro gruppi: i gollisti, cioè quelli che pensano di poter fare da soli, vista la chiusura trumpista della mente americana; gli atlantisti, ovvero quelli che credono sia sempre e comunque meglio agire di concerto con gli Stati Uniti, anche gli Usa antiamericani di Donald Trump; i negazionisti, cioè quelli che fanno finta di non capire che cosa sta succedendo e che il futuro pacifico e libero della nostra società è a rischio; e infine i putiniani, gli utili idioti e gli agenti del caos che sono pronti a consegnarsi mani e piedi al regime autoritario di Mosca e a smantellare lo Stato liberale.
A guidare i primi, i gollisti, ovviamente ci sono i francesi, e con loro ci sono gli europeisti di ogni famiglia politica convinti che di fronte alle minacce di Vladimir Putin e di Trump sia finalmente arrivato il momento di dotarsi di una difesa comune, e non solo.
Gli atlantisti sono gli inglesi, i polacchi, i baltici, i Paesi nordici, gli europei dell’Est che per ragioni storiche o di vicinanza geografica col nemico russo non hanno tanto tempo da perdere, vogliono essere pronti in caso di allargamento delle mire imperialiste russe, e immaginano di convincere Trump usando la carta a lui cara del business conveniente per gli Stati Uniti, mica per ragioni ideali: l’America ci garantisca la sicurezza, in cambio dell’acquisto delle forniture militari dalle aziende americane.
I putinisti sono «los patriotas» riunitisi in Spagna nel weekend, insomma Marine Le Pen, gli spagnoli di Vox, Viktor Orbán, l’olandese Geert Wilders, più i vari nazisti tedeschi e non solo tedesco in grande spolvero in questo momento, e poi i rossobruni, i comunisti, gli utili idioti e i quaquaraquà a cinque stelle.
Il panorama politico italiano, come al solito, è il più variegato e spumeggiante, l’avamposto del fronte negazionista. A metà tra i gollisti riluttanti e i negazionisti c’è il Partito democratico, che ha una linea isterica e stravagante, né atlantista né putiniana, confinante con il nascondere la testa nella sabbia, ma nemmeno pienamente europeista, se non a parole, tanto che al Parlamento europeo sulle questioni primarie il gruppo Pd vota quasi sempre in dissenso (con la formidabile eccezione di Pina Picierno) rispetto agli europeisti socialisti, democratici e popolari.
Matteo Salvini è un caso a parte, ed è umiliante doversene occupare: da maglietta numero uno del partito putiniano naturalmente è andato in Spagna ma contemporaneamente ha sciorinato anche il cappello muskiano del Make Europe Great Again (Mega), proprio mentre urlava di voler smantellare l’Europa che conosciamo. Evidentemente, secondo il Capitano, l’Europa da far tornare grande è quella che, prima di diventare comunità e unione, preferiva farsi la guerra.
I Cinquestelle, per parlare di altri campioni di insensatezza politica, hanno la tessera numero due del partito putiniano. Forza Italia tradizionalmente è atlantista, così come, per ora, Giorgia Meloni. Ed è questa la cosa più rilevante: il posizionamento della presidente del Consiglio non tra i putiniani, ma tra gli atlantisti.
Sappiamo che non è cominciata così, per questo vale la pena sottolinearlo. Prima di andare a Palazzo Chigi, infatti, Meloni faceva a gara con Salvini e i grillini nel congratularsi con Putin. Da presidente del Consiglio, per opportunismo o meno, Meloni è diventata atlantista.
Meloni non è andata in Spagna, non frequenta Le Pen, sul rapporto con la Russia non segue Orbán (lo segue, purtroppo, sulla strada della democrazia illiberale e del controllo politico degli apparati dello Stato). Meloni sta, piuttosto, con i conservatori polacchi, probabilmente i più coerenti e solidi atlantisti d’Europa (e anche loro campioni dell’autoritarismo).
Insomma, Meloni sta con l’America, con quella di Joe Biden e a maggior con quella autoritaria e nazionalista di Trump, almeno fin quando Trump non farà saltare del tutto l’alleanza transatlantica che negli ultimi ottant’anni ha garantito pace e creato ricchezza nell’emisfero occidentale, ha sconfitto il totalitarismo sovietico e poi, grazie alla globalizzazione, ha esteso il progresso economico e tecnologico al resto del pianeta.
Nei giorni scorsi, oltre alle idiozie imperialiste su Canada, Messico, Groenlandia e Panama e Gaza, Trump ha avviato il processo di smantellamento dell’apparato federale americano, ha nominato uno a libro paga di russi e cinesi (Kash Patel) a capo dell’Fbi e una specie di ircocervo a forma di Toninelli e Di Battista (Tulsi Gabbard) a capo dell’intelligence americana, con risultati che nemmeno l’Unione Sovietica o Bin Laden o lo sciamano Jake Angeli avrebbero mai potuto immaginare, nemmeno nei loro sogni più rosei.
Mentre faceva tutto ciò, e cancellava anche il favoloso piano Marshall di aiuti umanitari globali UsAid, Trump ha deciso anche di dare lo status di rifugiati politici, perché «discriminati», agli afrikaners, gli eredi dell’élite bianca che ha guidato il Sudafrica dell’apartheid, quell’ambientino dove si è formato il trio della PayPal mafia, Elon Musk, Peter Thiel e David Sacks, che oggi immagina di rinverdire i fasti razzisti dai corridoi della Casa Bianca.
In mancanza di un’iniziativa politica europea drammatica e seria guidata dai “gollisti”, o se gli “atlantisti” non riusciranno a convincere Trump che per l’America è più conveniente difendere l’Europa, il movimento Maga/Mega di Trump e Musk – assieme all’imperialismo russo, all’ignavia dei “negazionisti” e ai trattamenti “di favore” sui dazi che qualcuno pietirà a Washington a danno dei partner europei – finirà per scardinare del tutto l’Unione europea. Meloni resterà col cerino in mano, e lascerà l’Italia nei guai.