Perché tutti i più stentorei apologeti della Repubblica antifascista nata dalla Resistenza – il rettore Tomaso Montanari non è né il primo, né il solo – considerano i giovani ucraini, che scelgono volontariamente di combattere contro l’occupante russo, dei poveri schiavi di un regime bellicista a differenza dei loro coetanei italiani che tra il ’43 e il ’45 scelsero la lotta partigiana contro l’occupante tedesco?
Perché l’indisponibilità degli uni a diventare sudditi di un regime collaborazionista del Cremlino sarebbe meno moralmente autonoma, meno luminosamente eroica, meno storicamente benedetta di quella dei giovanissimi italiani che scelsero di combattere contro il fascismo di Salò? Perché la resistenza ucraina non è una vera resistenza e il sostegno della coalizione alleata al governo di Kyjiv non è un contributo onorevole, una lotta di liberazione, ma un escamotage per condurre una guerra per procura contro la Russia?
Ma soprattutto – madre di tutte le domande – perché l’antifascismo pacifista della sinistra del tempo che fu, e magari (speriamo di no) anche di quello che sarà, ripete dell’Ucraina «bellicista» e di Zelensky «dittatore» esattamente le stesse cose che dicono i fochisti del neo-fascismo planetario, usa le stesse parole del circo Maga contro l’arroganza dei deboli e le ragioni dei forti e imbraccia le stesse retoriche ignobili, saputamente realiste o untuosamente umanitarie, di tutta l’intendenza putiniana disseminata nella politica, nel business e nell’informazione occidentale sulle orribili cataste di morti procurate non dalle bombe dell’aggressore, ma dalla legittima difesa dell’aggredito?