(Movieplayer) E’ considerato uno dei migliori registi coreani e in generale uno dei più promettenti film-maker in ambito internazionale. Di recente ha compiuto il grande balzo, realizzando un blockbuster fantascientifico con budget ed attori statunitensi. E Quentin Tarantino ha gettato inevitabilmente i riflettori su di lui quando ha dichiarato che The host e Memories of murder sono due dei suoi film preferiti dell’ultimo ventennio.
(Adriano Meis) Bong Joon-ho nasce il 14 settembre 1969 nella Città Metropolitana di Taegu. Laureatosi in Sociologia – percorso di studi che lo influenzerà negli anni a venire – Bong, nel 1994, scrive e dirige i suoi primi cortometraggi. Il 2000 è l’anno del primo lungometraggio, una commedia folle e amara, Barking dogs never bite.
Negli anni successivi, il Cinema di Bong Joon-ho si impone all’attenzione del pubblico e della critica con il trittico di produzioni sudcoreane Memories of murder (2003), The Host (2006) e Madeo (2009), inframezzate da Shaking Tokyo, episodio del film collettivo Tokyo! (2008), co-diretto assieme a Michel Gondry e Leos Carax.
Per chi non avesse familiarità con il Cinema sudcoreano è necessario sottolineare come la narrativa cinematografica del Paese dei cinque petali, specialmente negli ultimi anni, abbia una forte connotazione di denuncia sociale rispetto a tutte le “storture” proprie della penisola asiatica.
Che si parli di pastellose favole di (mala)sanità, servizi di informazione che minimizzano gli effetti di una pandemia zombie o cartoni animati caustici rispetto a religione e polizia, poco importa: per i cineasti sudcoreani il Cinema è anche una potentissima arma per criticare ciò che non funziona nel loro sistema socio-culturale-governativo.
Come accade spesso anche nelle produzioni dei “cugini” nipponici, le pellicole della penisola rosso-blu cerchiata trasmettono all’occhio dello spettatore occidentale un disagio sociale profondo, dove la spaccatura fra le classi abbienti e quelle più povere è ormai giunta a una profondità incolmabile, dalla quale è impossibile emergere e dove la rassegnazione pare essere l’unica strada percorribile.
In uno Stato dove le istituzioni non si curano del benessere del cittadino e i media sono pilotati e assoggettati al potere, l’immagine trasmessa – a prescindere dal “genere” dei film presi in visione – è quella di un popolo educato all’unità, al pensiero dominante di “tante teste per un solo, grande, organismo” (anche questo un assioma accostabile agli amici del Sol Levante), ma che nella mera realtà dei fatti – e dei frame proposti – si trasforma in un “tutti contro tutti”, dove i poveri e i deboli si azzannano fra loro – più o meno inconsapevolmente – mentre l’alta borghesia sorride, indisturbata, libera di fare i propri porci comodi.
Se c’è un regista/sceneggiatore che è riuscito a esemplificare questi concetti, declinandoli in una rosa di generi ampissima – dal dramma al moster movie – è proprio Bong Joon-ho che ha ormai conquistato un’attenzione artistica di scala mondiale.
I suoi 4 film da vedere subito
Snowpiercer (2013). Un blockbuster (co-produzione USA e Corea del Sud) basato da una serie a fumetti francese, Le Transperceneige. Il regista sudcoreano dimostra di sapersi ben destreggiare anche con un tipo di pellicola ad alto budget e con un cast ben noto a Hollywood (Chris Evans è il protagonista). Il film è un ottimo esempio di intrattenimento intelligente, dove esplosioni e scenari post-apocalittici si ben amalgamano con una riflessione sulla condizione umana e sulla lotta di classe. (Longtake)
The Host (2006). Un disaster movie di impressionante impatto visivo. L’eccezionale messa in scena mette in risalto le potenzialità del genere riuscendo inoltre a coniugare spettacolarità e densità tematica. Contro ogni previsione il film gioca molto sull’attesa, instillando tensione nello spettatore per poi folgorarlo con le scene più roboanti. Notevoli le introspezioni psicologiche dei personaggi e le dinamiche familiari, il tutto arricchito da una tematica ambientalista, sempre cara a Bong Joon-ho.
Memorie di un assassino (2003)
Primo capolavoro di Bong Joon-ho, è sicuramente uno dei gialli più riusciti e meglio costruiti del 21° secolo. Dietro al pretesto del genere Bong Joon-ho compie uno studio antropologico, che ricorda molto da vicino quelli di Shohei Imamura, dell’ecosistema di una cittadina di campagna nella Corea del Sud degli anni ’80. In un paese che lentamente si avvicina alla democratizzazione dopo anni di autoritarismo, la polizia non conosce altro strumento se non quello della violenza per mantenere l’ordine. Una violenza vacua, spogliata di spettacolarità, animalesca, che porta solo alla sfiducia da parte della popolazione.
Dinnanzi a una società che appare dedita al male e al soverchio il male vero, quello incarnato dall’assassino e stupratore di donne, non può che mimetizzarsi alla perfezione. (Arturo Garavaglia)
Parasite (2019)
Il film che ha lanciato il cinema sud-coreano in tutto il mondo, il film che ha acceso l’interesse del grande pubblico per una cinematografia che negli ultimi trent’anni ha prodotto svariati capolavori, il primo film non in lingua inglese ad essersi aggiudicato l’Oscar come miglior film. Un film che misura la spietata distanza che separa il mondo del superfluo da quello della sopravvivenza. Racconta la contrapposizione sociale della Corea del Sud, dove famiglie molto ricche vivono al fianco di nuclei familiari che a stento riescono ad arrivare a fine mese. E lo fa con una storia originale, piena di umori, con una sceneggiatura senza buchi, congegnatissima, di grande stile formale
Un film in cui la commistione dei generi molto cara a Bong Joon-ho raggiunge forse il miglior risultato, in cui lo spettacolo e l’intrattenimento vanno di pari passo con la satira, con il grottesco e con la tragedia.
Parasite ha scritto la storia del cinema contemporaneo e i risultati li stiamo vedendo già oggi. Basti anche solo pensare a quanti prodotti provenienti dall’estremo oriente sono stati lanciati da piattaforme come Netflix e Amazon Prime Video negli ultimi due anni.