Non penso che sia stata un’imboscata quella del gangster in chief e del suo picciotto contro Volodymyr Zelensky venerdì alla Casa Bianca. Più semplicemente, Donald Trump e J.D. Vance sono due pippe al sugo, sono rivoluzionari da operetta, senza nessun piano, senza nessuna strategia se non quella di truffare ancora una volta i follower sciorinandogli una vittoria, la pace!, non la famigerata «pace per il nostro tempo» di Neville Chamberlain nel 1938 che aprì le porte alla seconda guerra mondiale, ma qualcosa di ancora più osceno: «La pace per un nostro meme» da condividere in tempo reale per infinocchiare sull’istante la tribù globale dei fessi.
Trump e Vance credevano di poter estorcere al leader del popolo che oggi moralmente guida il mondo libero una resa incondizionata, e pure a pagamento, e pretendevano anche che Zelensky li ringraziasse. Li ringraziasse, poi, di che cosa? Di voler abbandonare i suoi connazionali che hanno resistito per tre anni all’invasione criminale russa su larga scala e di pianificare la loro consegna all’assassino del Cremlino? O forse Zelensky avrebbe dovuto ringraziare, come peraltro ha fatto più volte, per tutti gli aiuti americani militari e civili concessi all’Ucraina nonostante l’espressa contrarietà di Don Donald e malgrado il voto contrario al Senato del malacarne J.D.?
Chiunque abbia mai parlato con gli ucraini – funzionari di governo o politici o semplici cittadini – sa benissimo che la prima cosa che tutti gli ucraini fanno quando incontrano un europeo o un americano è esattamente ringraziare, ringraziare in un modo così intenso e sincero da provocare ogni volta agli interlocutori un dolore lancinante, da curare andandosi a nascondere per la vergogna di non fare di più per aiutarli. Quei ringraziamenti continui degli ucraini esprimono una riconoscenza assoluta, perché questa è la prima volta nella loro storia che qualcuno si è accorto del genocidio fisico e culturale che da secoli subiscono dalla Russia.
E così ringraziano, ringraziano a mai finire, quando dovremmo essere noi a ringraziarli perché, difendendo la loro identità, la loro cultura, le loro case, le loro famiglie, la loro vita, gli ucraini difendono allo stesso tempo la nostra libertà, la nostra società aperta e la nostra comodità di commentare l’aggressione russa, e ora quella dei corleonesi della Casa Bianca, senza spedire soldati al fronte, senza preoccuparci degli attacchi aerei o dei razionamenti elettrici proprio perché ci sono loro, gli ucraini, a combattere anche per noi.
E tutto questo ci è evitato spendendo soltanto lo 0,12 per cento del nostro prodotto interno lordo (0,4 con la quota attraverso le istituzioni europee) per proteggere un popolo che subisce attacchi missilistici quotidiani e vive, soffre e muore nel tentativo di impedire la fine della libertà e della pace in Europa.
Qui è il punto dove i soliti fessi parlano di «guerra per procura», come se gli ucraini non esistessero, come se per anni l’occidente non si fosse voltato dall’altra parte di fronte all’espansionismo russo, come se non avesse già più volte firmato accordi di pace con Mosca senza garanzie per la sicurezza ucraina, come se venerdì alla Casa Bianca non si fosse visto in diretta televisiva che la procura ormai è quella che il Cremlino ha conferito in suo nome e per suo conto a Trump al fine di vincere in Ucraina e in Europa.
Avrete notato, poi, che i principali sostenitori della sconcia tesi secondo cui gli ucraini sarebbero da tre anni carne da macello in una guerra combattuta in nome e per conto degli americani sono gli stessi che adesso spingono per arrivare a una «pace per procura», siglata dai mandamenti di Mosca e di Mar-a-Lago, sui corpi degli ucraini e ai confini dell’Europa. Non c’è mai fine all’indecenza.
I leader europei più accorti e le nazioni geograficamente, storicamente e politicamente più minacciate dalla «pace per procura» si stanno infine mobilitando, pare non più solo con messaggi di solidarietà su Twitter ma, a cominciare dal vertice di ieri a Londra e dai prossimi che seguiranno, proponendo un piano di pace e di sicurezza condiviso con gli ucraini da sottoporre poi agli americani.
Il presidente del Consiglio europeo Antonio Costa al termine del vertice ha detto che «non possiamo ripetere l’esperienza degli accordi a Minsk e non possiamo ripetere la tragedia dell’Afghanistan», ricordando a tutti che fidarsi della Russia e abbandonare un paese in guerra, due pilastri della politica estera trumpiana, non porterebbe affatto la pace, ma farebbe continuare in peggio la guerra.
Trump ha scritto un post sui social in terza persona, ed è la seconda volta che parla come Napoleone, con toni passivo-aggressivi nei confronti di Zelensky ma, di nuovo, senza mostrare di seguire una strategia precisa. Sembra quasi che Trump abbia bisogno di trovare un accordo con l’Ucraina, per mostrare ai suoi un successo e per evitare di essere etichettato come un pupazzo di Putin, tanto più che ieri il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha detto che ora, grazie a Trump, l’America «ha cambiato rapidamente tutte le configurazioni di politica estera, e queste coincidono ampiamente con le nostre idee».
L’Italia è come al solito un caso a parte, inguaribilmente votata a offrire soluzioni creative, da «Silicon Valley del populismo» quale è sempre stata. In Parlamento e nei media, abbiamo la nostra pena di trumputiniani e di utili idioti, buona parte dei quali fanno gli interessi di Mosca e di Trump da sedicenti sovranisti e patrioti, tifando per la fine della democrazia liberale e per l’inizio della guerra commerciale che metterebbe in ginocchio l’economia di un paese esportatore come il nostro.
Oltre ai “trumputiniani first”, abbiamo una presidente del Consiglio che ha avuto sinceramente a cuore la causa ucraina, ma che dopo l’elezione di Trump è rimasta intrappolata al bivio tra il richiamo della foresta trumpiano che porta a Mosca passando per Mar-a-Lago e l’interesse nazionale italiano che porta a Bruxelles passando da Kyjiv.
Meloni proverà fino all’ultimo a rappresentare una terza via, illudendosi di contare qualcosa sulla scena internazionale, ma con questa difficile posizione rischia di far restare l’Italia isolata e a metà del guado tra l’Europa e l’America. Che è un po’ la versione di governo del grottesco «né con Trump né con l’Europa che fa la guerra» di Elly Schlein.
L’opinione pubblica italiana pare abbia capito meglio dei politici che cosa sta succedendo, e vedremo se la manifestazione pro Europa del 15 marzo sarà sufficientemente partecipata. L’idea della piazza per l’Europa lanciata da Michele Serra su Repubblica è bene intenzionata, e certamente una buona cosa, nonostante sia stata subito annacquata dal nulla mischiato a niente di Schlein, che ha motivato la sua adesione senza citare l’argomento più urgente per cui l’Europa oggi va difesa anche dagli attacchi di Trump e di Putin: l’argomento è l’Ucraina.
«L’Ucraina è Europa», è stato lo slogan di una precedente manifestazione co-organizzata da Repubblica il 13 marzo 2022 (Michele Serra non c’era), pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione russa su larga scala dell’Ucraina. La piazza per l’Europa del 15 marzo sarà una scampagnata inutile senza le bandiere ucraine accanto a quelle europee, senza la consapevolezza che l’Ucraina siamo noi, senza l’obiettivo preciso di mobilitare governo, opposizione e tutto il paese per aiutare l’Ucraina assieme ai partner europei.
La sintesi più efficace di ciò che bisogna fare per salvare l’Ucraina e quindi l’Europa è quella offerta ieri dal premier britannico Keir Starmer: «Quello di cui l’Ucraina ha bisogno adesso sono armi e beni di prima necessità. Non ha bisogno di persone che twittano e fanno sfoggio di virtù».