Trump costringe Dario Fabbri all’inseguimento. «Questo qui aggiunge ogni giorno cose», dice Fabbri. Come dire, io mi occupo di geopolitica, parlo in tv, nei podcast e in eventi come questo dell’Athesis, ma il tycoon è sempre un passo avanti. Quello che era buono ieri non è più buono oggi, non completamente, come ci portasse, ci costringesse tutti sul tamburo della cronaca. Anche noi, studiosi dei tempi lunghi della geopolitica. Così Fabbri per Athesis prova a ribaltare il gioco. E a prendere lui l’iniziativa, anticipando più che le mosse di Trump quelle dell’Europa. L’Europa dovrebbe sorprenderlo, prendere in contropiede The Donald: «Uno che ha aspirazioni da autocrate, non c’è dubbio», chiarisce.
Il flirt
Il contropiede di Fabbri è una provocazione: «Perché l’Europa non flirta un po’ con la Cina? E fa capire agli Usa che non sono l’unico, possibile interlocutore?». Vuoi vedere che a Washington adotterebbero più miti consigli, politiche più soft verso il vecchio continente, che è evidente stanno considerando come un partner qualsiasi. «Invece – dice Fabbri – l’Europa è il continente più importante, chi lo controlla controlla il mondo. Ma cosa hanno fatto gli europei nel vertice di Londra? Il contrario: hanno implorato gli Stati Uniti di non andarsene».
Il direttore di Domino non parla dei progetti di riarmo di Von der Leyen, li lascia sullo sfondo, il punto non è quello. Fa della geopolitica creativa, come può essere rubricata appunto l’ipotesi di una bella virata verso la Cina, per vedere l’effetto che fa (sugli «amici americani»). Quelli che hanno liberato l’Europa dal nazifascismo e che se la storia si ripetesse probabilmente ora se ne infischierebbero. Ci lascerebbero a sbrigarcela da soli con Hitler e oggi con Putin. Perché agli Usa dell’era Trump una cosa importa: «Staccare la Russia dalla Cina». È questa la priorità. Prospettiva, dice Fabbri, che anche Mosca non disdegnerebbe. «Se Putin dovesse scegliere se stare con l’America o con la Cina, sceglierebbe l’America». Poi spiega: «La Cina, scusatemi in francesismo, gli sta sotto al sedere (geograficamente)». Poi conclude: «Con la Russia avrebbero finito col parlarci anche Biden, Kamala Harris: gli Stati Uniti non sarebbero andati avanti all’infinito con la guerra in Ucraina».
Dinamiche profonde
Trump non ha inventato nulla, e non ha inventato neppure molte altre cose che gli attribuiscono, «ma che sono istanze, dinamiche profonde che attraversano gli Usa, e che lui ha saputo veicolare». In politica estera ma soprattutto in politica interna. I nervi tesi con l’Europa, ad esempio… «C’è un’America profonda che nutre risentimento verso di noi. Si sentono sfruttati. Basta, dicono, dipendere dall’import, basta spendere per tenere attaccato il resto del mondo agli Usa». Insomma, America first, Maga, si possono tradurre in facciamola finita con la globalizzazione a trazione americana: ci sosta troppo.
Fabbri sfata anche la vulgata che la Russia stia vincendo facile in Ucraina: «Dopo tre anni non ha neppure conquistato l’intero Dombas russofono». Un mezzo flop l’operazione speciale di Putin, «e difatti a Riad sono andati di corsa». E l’antieuopeismo dei diseredati del Midwest, degli elettori di Trump con i quali lui, palazzinaro newyorkese, non ha nulla culturalmente da spartire ma di cui sa interpretare le paure e le frustrazioni, aiuta a spiegare che non tutti i dazi sono uguali. «Ci sono quelli contro Bruxelles che vanno e vengono, e che sono di rabbia, di risentimento. Diversi invece quelli verso il Messico e la Cina, paesi che Washington considera concorrenti». Ma non dimentica una cosa, Fabbri. E lo rammenta alla folta platea del Sociale: «È l’Europa il continente più importante, se gli Usa sono la maggior potenza del mondo è perché controllano l’Europa». (da Bresciaoggi)