«L’aspetto più importante di Adolescence non è quel che succede dietro agli schermi in cui i nostri figli sembrano persi. Non è Internet, non è il cyberbullismo, non sono i social. È la mancanza, in tutta la serie Netflix, di un adulto significativo».
Matteo Lancini lavora con i ragazzi da trentadue anni. È presidente della fondazione Minotauro a Milano, insegna alla Bicocca e alla Cattolica, Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti è il libro che ha appena pubblicato per Raffaello Cortina Editore.
E sostiene, a dispetto di chi pensa che basti ristabilire un po’ di sane regole per mettere tutto a posto, che l’unica cosa che salva – genitori e figli – è la capacità di incontrarsi. Tutto il resto, la Rete, i telefonini, rappresenta un gigantesco alibi che ci impedisce di vedere quanto alla base di un rapporto interrotto siamo soprattutto noi “grandi”.
«Ha il merito enorme di promuovere processi di identificazione con tutti. Abbiamo bisogno di parlare delle emozioni, anche le più disturbanti, e fatichiamo a farlo. A essere cruciale però è l’assenza di un adulto di riferimento. Tanto che a un certo punto sono i ragazzi più in difficoltà a consolare o a doversi prender carico dei loro genitori. La stessa assenza si nota nella scuola, ed è chiaro che spinge ad aumentare il potere orientativo sia dei coetanei che di Internet».
Non c’è relazione con gli adulti, e quella tra pari si trova in Rete?
«È così, ma facciamo un grosso errore se invece di parlare del dolore e della rabbia, che se non si trasformano in parola possono portare ad atti estremi, parliamo solo delle chat e delle comunità di incel».
Gli incel sono gruppi di uomini che si sentono inadeguati e trasformano la loro frustrazione in odio e violenza verso le donne. Il maschio uccide non perché si sente dominante, ma perché si sente brutto e rifiutato. Cosa sta succedendo?
«Bisogna interrogarsi su una nuova fragilità che porta oggi a un ritiro maschile senza precedenti. Dovremmo aiutare i ragazzi a trovare una mediazione tra questa visione del maschio alpha, comunque aggressivo, e quella dello sfigato, che lo diventa come per difendersi. O si ritira fino a sparire. C’è tutta una nuova costruzione identitaria dei ragazzi da indagare, come abbiamo fatto per i disturbi alimentari delle ragazze. Ho avuto in cura tanti ragazzi che allora non si definivano incel, ma che magari erano timidissimi, a scuola non osavano alzare lo sguardo, e poi su Internet seguivano gruppi neonazisti. Invece di elaborare il loro disagio, lo trasferivano in un mito di violenza. Gli accoltellamenti hanno la stessa radice: una disperazione che non trova un canale di comunicazione, e quindi esplode».
Lei scrive: «La relazione è tutto. È l’unica esperienza che ti può far cambiare idea se stai pensando di suicidarti o se hai deciso di digiunare fino a scomparire o di ritirarti dalla scuola e dalla società». Cos’è che la rende così complicata?
«Una società che fatica ad avere valori condivisi, in cui vige un individualismo esasperato, dove il noi è sparito ed è sparita la voglia di capire la complessità dell’altro».
Cosa sbagliano gli adulti?
«In passato i figli si facevano per mandato, per tradizione. I nostri sono invece molto desiderati. Spesso arrivano tardi, sono uno, al massimo due. E noi diciamo loro: “Io e te ci capiremo, perché ti ho voluto tanto”. Questo patto viene immediatamente disdetto non appena i figli iniziano ad esprimere aspetti di sé che ci danno fastidio. “Ma come, ti ho desiderato, ti ascolto, non dirai mica che stai male?”. Le loro emozioni più profonde, la paura, la tristezza, la rabbia, ci spaventano perché ci rovinano il programma. Dobbiamo lavorare, abbiamo lo sport, gli amici, stare dentro questo rapporto diventa faticoso. Il problema è che gli adolescenti vogliono essere amati per quello che sono non dagli psicologi, ma dai loro genitori».
Temiamo le loro emozioni?
«Le faccio un esempio. Un bambino cammina con la mamma e incontra un cane per strada. Si spaventa, dice: “Ho paura”, e che fa la mamma? Gli dice: “Non devi avere paura”. Si ferma a parlare col proprietario: “Vero che non deve avere paura?”.
Non significa aiutarlo?
«Significa non dare legittimità alle sue emozioni. Succede con tutto: con l’angoscia esistenziale dei nostri figli, con l’ansia che opprime soprattutto i più intelligenti e profondi di loro e non ha più a che fare con la prestazione, e molto invece con aspetti più legati alla costruzione dell’identità. Succede con la rabbia. Cresciamo ragazzi che non legittimano le loro emozioni, cercano di mandarle via, ma quelle prima o poi vengono fuori».
Lei ha molto criticato la tesi per cui alla base dell’ansia dei ragazzi ci sia il continuo specchio del telefonino.
«La ricerca scientifica spiega che c’è una differenza abissale tra correlazione e causalità. Il libro La generazione ansiosa di Jonathan Haidt ha lavato la coscienza degli americani e viene usato da chi firma petizioni per vietare i social sotto i 16 anni, come si potesse fare davvero. Si considera l’avvento della telecamera frontale sul telefonino la causa di tutto, ma non si fanno altre domande».
Quali?
«Qual è il legame del disagio con l’individualismo sfrenato, con una società che conta, nel 2025, 56 guerre, con quello che i ragazzi vedono tutti i giorni non online, ma sui tg: morti, stragi, carneficine. Nel 2012 negli Stati Uniti c’è stato il picco dei suicidi legato alla crisi economica del 2008. Trovo clamoroso che si sostenga che per colpa dei videogiochi i giovani confondano il virtuale col reale, senza rendersi conto che fuori dai videogiochi c’è un mondo in cui una donna passa sopra cinque volte con un Suv a un uomo che le ha rubato la borsetta».
La difficoltà a capire il valore della vita non arriva dai troppi schermi?
«No, arriva dal mondo che abbiamo costruito. E mentre vediamo ricercatori che all’università elaborano paper grazie all’intelligenza artificiale, o a Strasburgo gli europarlamentari che si affidano alle app dei traduttori, ci mobilitiamo perché a scuola i ragazzi ne vengano tenuti lontani. Capisce perché dico che viviamo in una profonda dissociazione?».
Sbaglia la scuola che va a colpi di divieti?
«I 5 in condotta per le occupazioni, l’obbligo di adeguarsi a un modello di insegnamento novecentesco, le perquisizioni prima di un esame, sono tutte cose che allontaneranno ancora di più i ragazzi. È questa la tragedia. Non incontrarli lì dove sono. Non chiedere: “Chi sei tu?”. Non saper intervenire prima che arrivi quella sensazione terribile di sentirsi soli in mezzo agli altri. Non accettare la relazione quando disturba, spaventa, quando non è consolatoria. Colpevolizzare il loro disagio, invece di capirlo e cercare brecce che dicano loro: il tuo dolore è legittimo, lo riconosco, parlane con me».
Chiamami adulto di Matteo Lancini, Raffaello Cortina Editore, pagg. 224, euro 16