L’America che si isola

Rendere l’America di nuovo grande, ok. Ma come è diventata grande l’America?
Accogliendo immigrati da tutto il mondo, in un Paese enorme e vuoto (tuttora la densità degli Usa è meno di un quarto di quella della Cina, meno di un quinto di quella dell’Italia, meno di un dodicesimo di quella dell’India). E intervenendo in due guerre mondiali scoppiate in un altro continente. Se Donald Trump fosse stato presidente nel 1917 al posto di Woodrow Wilson, l’Italia e i suoi alleati non avrebbero vinto la Grande Guerra. E se nel 1941 Roosevelt avesse accolto Churchill come lui ha accolto Zelensky, Hitler avrebbe vinto la Seconda guerra mondiale.
Però Trump è il presidente americano del tempo che ci è dato in sorte. Ha alle spalle un forte movimento popolare, anche se ha vinto grazie ai sei milioni di voti persi dai democratici. Di questo passo, Trump rischia una grave sconfitta alle elezioni di mid term, tra poco più di un anno e mezzo. Anche perché Trump non sembra aver compreso le ragioni per cui l’America è diventata grande, e — a dispetto del suo slogan — lo è rimasta fino a ieri.
La forza degli Stati Uniti è innanzitutto nel suo sistema di alleanze, stipulate secondo la strategia dell’impero romano: diversi popoli, diversi patti; con gli Usa sempre in posizione di forza, grazie anche a quelle basi militari che parte dell’amministrazione Trump vorrebbe chiudere.

L’isolamento politico, militare, commerciale non è nell’interesse degli Stati Uniti. I dazi sono un disastro, immediato e futuro. Immediato perché rappresentano di fatto una tassa sui consumi degli americani, destinata ad aumentare i prezzi e deprimere le Borse. Futuro perché una perdita di centralità dell’America nel sistema internazionale indebolisce proprio la sua arma più formidabile: la guida della rivoluzione digitale.
Certo, i dazi si applicano sul formaggio e sulle auto più che sui beni immateriali. Ma se gli Stati Uniti perdessero l’egemonia tecnologica e commerciale a vantaggio della Cina, dell’India, di un’Europa improbabilmente ma sperabilmente risvegliata, anche l’egemonia politica e culturale sarebbe a rischio.

La rivoluzione del nostro tempo, da Internet all’intelligenza artificiale, è stata guidata dalla Silicon Valley. È una leggenda quella per cui i padroni della Silicon Valley sarebbero democratici convertiti al trumpismo; e non solo perché Bill Gates, a suo tempo, sostenne Bush junior. I padroni della Silicon Valley hanno semplicemente deciso di fare politica in prima persona, senza l’intermediazione del partito e del leader al governo. J.D. Vance è il loro «Manchurian Candidate», l’uomo dalla bella storia personale che loro dirigono. I dazi sono un modo di parlare a quello che Vance è stato: un «hillbilly», un esponente delle classi popolari legate alla vecchia economia produttiva, che l’autarchia di Trump vorrebbe rilanciare. Ma se tornano acciaierie e industrie automobilistiche, serviranno nuovi operai; e quindi nuovi immigrati. Come quelli che Trump fa deportare in catene davanti a fotografi e cameramen.

All’apparenza, i dazi non toccano quello che Vance è diventato, non danneggiano i signori della tecnofinanza che in lui si riconoscono. Ma alla lunga un’America che si isola è destinata a perdere la sua egemonia. Altro che America di nuovo grande.
Se nell’era della globalizzazione un Paese che ha il 4% degli abitanti della Terra produce ancora il 26% della ricchezza mondiale, non è per via dei dazi. È perché attira le migliori intelligenze del pianeta, oltre a manodopera a basso costo. È perché ha convertito i popoli sconfitti in alleati. Ha basi militari ovunque. Conosce i dati di quasi ogni abitante del mondo. Ha il primato delle comunicazioni e delle informazioni. È la fabbrica dei sogni e delle idee, nello spettacolo e nella scienza: se c’è un caso letterario, una serie tv, un’invenzione high tech, un vaccino o una medicina nuova vengono dall’America. Ed è inclusiva e aperta alle diversità: perché non è detto che i migliori talenti siano bianchi che vanno a messa la domenica e fanno l’amore il venerdì sera con la moglie nella posizione del missionario. Nessuno di questi atout da solo è decisivo. Tutti insieme rappresentano un’arma formidabile: l’apertura al mondo.
Forse non è un caso che il Nasdaq, l’indice delle aziende high tech, perda molto di più del Dow Jones, quello dell’economia tradizionale. Perché si comincia dal vino e dall’acciaio, e si finisce con l’egemonia tecnologica, che oggi più che mai coincide con quella culturale, politica, economica, militare. Il potere più importante non è quello sui territori, ma sulle anime.

Poi certo un’egemonia, un impero è anche un fatto di sopraffazione. L’impero romano si fondava sulla schiavitù, che in America fu abolita un secolo e mezzo fa dopo una guerra civile, senza che i vinti si rassegnassero: tra i primi provvedimenti di Trump c’è la difesa delle statue degli eroi del Sud schiavista e segregazionista. Oggi gli Usa sono il Paese più ricco del pianeta ma hanno il Terzo Mondo in casa, il record del numero dei carcerati, milioni di poveri del tutto abbandonati a se stessi. I dazi vorrebbero parlare all’America profonda, ma Trump non intende affatto usare la leva fiscale per redistribuire la ricchezza o almeno assistere gli indigenti: la sua idea è che il welfare americano debba essere pagato dagli esportatori stranieri.

Di fronte a tutto questo, l’Europa può fare poco, e l’Italia pochissimo. Giorgia Meloni ha un problema: il capo della destra mondiale, cioè della sua famiglia politica, ha preso una decisione che danneggia il Paese che la Meloni governa, e in particolare i suoi elettori, a cominciare dall’agroalimentare, dagli artigiani, dai piccoli imprenditori. La sua fortuna è avere un’opposizione disastrosa, con una parte che su Trump e Putin la pensa non come la Meloni, ma come Salvini. Prima o poi, però, i vuoti in politica si riempiono. Più che un leader di sinistra, l’alternativa naturale alla Meloni sarebbe un leader che riunisse i moderati e i riformisti dei due schieramenti.
Da come affronterà la partita dei dazi e quella più generale dei rapporti con l’America e l’Europa, si capirà se Giorgia Meloni non è solo in corsa per battere un record di durata, ma è in grado di aprire un ciclo di governo capace di trasformare il Paese.