(…) «Un giorno mi misi a scrivere, ignorando di essermi legato per la vita a un nobile ma spietato padrone. Quando Dio ti concede un dono, ti consegna anche una frusta; e questa frusta è predisposta unicamente per l’autoflagellazione».
Memore di questa confessione di Truman Capote, Piperno disegna i contorni di una meditazione sull’arte di scrivere.
Siamo dinanzi a una pratica antica e longeva. «A colpire è la sua capacità di non passare mai di moda. Persino la pittura e le (…) arti plastiche hanno dovuto cedere il passo all’avvento delle nuove tecnologie (…). La scrittura, un po’ come la musica, è lì che resiste indefessa». È un’esperienza imprevedibile, anche per chi ne è artefice, che tende a comportarsi come «il signore indiscusso di questo piccolo dominio fatto di lettere, spazi e segni d’interpunzione».
Un’avventura basata sulla discrasia tra le aspettative insite nel progetto e le sorprese riservate dalla stesura di un libro. Analogamente agli sport agonistici, la scrittura, osserva Piperno, richiede costanza, disciplina, abilità nel non perdere il ritmo, sapienza nel trasformare una «necessità impellente (…) in qualcosa in bilico tra vizio e tortura».
Una liturgia ossimorica. Privata e intima, ma in grado di dischiudere «orizzonti infiniti», come un’ipotesi di realtà aumentata: sulla pagina, è possibile «allestire omerici campi di battaglia o spedizioni galattiche, (…) creare dal nulla personaggi affascinanti o malvagi, (…) riavvolgere il nastro della storia umana e (…) stravolgerla». Solenne come un rito, ma monotona come un vizio, da coltivare quotidianamente. Espressione di un’«incommensurabile libertà», ma sorretta da regole inviolabili e segnata da ininterrotte revisioni.
Ma perché un romanziere sceglie di violare il foglio bianco? Per rispondere, Piperno ordina una minima storia letteraria sentimentale che, incurante delle sequenze cronologiche, procede per moventi affettivi ricorrenti. Il suo è lo sguardo dell’artista-critico, insofferente verso gli specialismi, animato dal gusto per le scorribande colte.
Dunque, ecco l’ambizione, perversa come «un grumo che risucchia nelle sue spire ogni grumo della tua volontà» (Honoré de Balzac, Charles Dickens, Francis Scott Fitzgerald, John Cheever, Saul Bellow, Bret Easton Ellis). L’odio, «sentimento viscerale e nutriente», refrattario ai compromessi, simile a un «grido rivolto al cielo» o a una «sfida lanciata a niente e a nessuno» (Edmond de Goncourt, Gustave Flaubert, Lautréamont, Louis-Ferdinand Céline, Thomas Bernhard, J.D. Salinger, Evelyn Waugh, Philip Roth). La responsabilità, che esige indignazione, urgenza testimoniale, slancio idealistico, «desiderio di verità e giustizia», tensione civile e morale (Piperno non si riconosce nella «confraternita» di cui fanno parte Émile Zola, Lev Tolstoj, Thomas Mann, Jean-Paul Sartre, Primo Levi, Gustaw Herling). E il piacere, sentito come godimento sfrenato, diletto, «mezzo per lasciarsi andare, evadere dal quotidiano o reinventare se stessi», ma anche supplizio e tormento (ancora Flaubert, Paul Valéry, Jane Austen, Jorge Luis Borges, Vladimir Nabokov).
Parlando di altri, Piperno parla di sé e del suo carattere mercuriale e, insieme, saturnino. A volte si mimetizza. Altre volte rinuncia alle maschere. Per elaborare, sulla soglia tra ritrosia e narcisismo, una sorta di inintenzionale dichiarazione di poetica, il cui senso è affidato al capitolo dedicato alla conoscenza.
Ponendo in dialogo le opere di Marcel Proust e quelle di Franz Kafka — aedi dell’«inconoscibilità del reale» — Piperno enuncia qui la sua arte del romanzo, inteso come genere aperto, ibrido, impuro, contaminato, «sporco», intimamente borghese, disposto a «farsi carico in modo imprevedibile dello spirito del tempo», governato dal narratore, che è costretto a muoversi a tentoni, con «un’attitudine alla cautela e alla sospensione». Una forma particolare di conoscenza, appunto.
Evidenti le assonanze con la concezione estetica di Kundera, secondo il quale, dotato della «saggezza dell’incertezza», solo il romanzo può scoprire la complessità dell’essere e la sua irriducibilità alle idee razionali. In un romanzo, «ogni pensiero dogmatico diventa ipotetico», aveva sostenuto Kundera, sulle cui orme, in chiusura di questa involontaria autobiografia intellettuale, Piperno annota: «Tra i motivi che spingono a scrivere (…), il desiderio di conoscenza mi pare non solo il più nobile, il più estenuante, il più difficile da perseguire, ma anche il più artisticamente proficuo. A distinguere gli scrittori che ne hanno fatto il fulcro della propria vocazione è un sentimento che coniuga impulsi solo in apparenza in contrasto: umiltà e ambizione».