IMPERDIBILI/ PANEBIANCO E SALVATI SUL CORSERA

Il ripensamento (vano, a quanto sembra) di Matteo Salvini sul governo Conte allo scopo di bloccare l’incontro fra Pd e 5Stelle, è forse un altro errore del leader leghista, come ha rilevato Paolo Mieli (Corriere, 17 agosto) dopo i tanti già commessi. Forse si era davvero spaventato a causa dell’affaire russo. Forse aveva creduto alla propaganda (sia propria che dei suoi nemici) che lo descriveva come a un passo dal diventare il capo di tutti noi. Ha anche pensato, sbagliando, che una grande forza mediatica potesse compensare una modesta forza parlamentare. Ha perfino scommesso sul fatto che gli altri fossero così grulli da permettergli di sovraintendere, da ministro dell’Interno, allo svolgimento delle elezioni. Così come aveva creduto in precedenza di battere tutti in astuzia assecondando la volontà grillina di ridurre il numero dei parlamentari. In quel caso lo scambio con i 5 Stelle sarebbe stato di questo tipo: i grillini avrebbero soddisfatto la loro voglia di antiparlamentarismo e la Lega sarebbe stata elettoralmente avvantaggiata dalla connessa riduzione dell’ampiezza dei collegi (i collegi piccoli penalizzano i piccoli partiti e premiano i più grandi). Ma anche quell’operazione difficilmente andrà in porto nel modo in cui Salvini l’aveva immaginata. Naturalmente, in politica, tutti fanno un mucchio di errori. Di solito, la fortuna arride a chi ne fa un po’ meno degli avversari. I nemici di Salvini, anche loro oggi impegnati in giravolte e trasformismi, potrebbero commetterne tali e tanti da compensare e neutralizzare i suoi, restituendogli così le carte vincenti. Ad esempio, quegli esponenti del Pd che hanno auspicato un «patto di legislatura» fra Pd e 5 Stelle sembrano usciti da una pagina di storia, ignari di cosa sia accaduto in Italia negli ultimi trenta o quarant’anni. Ignorano (o fingono di ignorare) che un patto di legislatura può funzionare solo se esistono partiti solidi: organizzazioni dotate di un forte insediamento sociale e di un po’ di disciplina e coesione. Per un patto di legislatura occorrerebbero i partiti di massa di un tempo. I partiti-marmellata che li hanno sostituiti, senza più insediamento (o con un insediamento fragile) e privi di coesione, non sono in grado di fare niente del genere. Una cosa è dire: facciamo un governo purchessia — meglio se guidato da un tecnico — che duri i mesi necessari per fare la manovra e, se proprio non si può evitare la riduzione dei parlamentari, compensarla facendo la riforma elettorale (che significa solo una cosa: eliminare la residua quota di collegi uninominali, varare la proporzionale pura). Per inciso: chi scrive teme che un sistema proporzionale (puro o impuro), in assenza di partiti solidi, sia un pericolo per la democrazia. Ma questo, evidentemente, è un altro discorso. Un simile governo potrebbe comunque legittimarsi invocando lo stato di necessità. Sarebbe però, quasi certamente, un governo elettorale, e quindi di spesa. Non è detto che sia meglio di elezioni subito. Il peggio è comunque inventarsi formule (come il patto di legislatura) per giustificare l’ingiustificabile, per dare vita a una coalizione tenuta insieme dalla paura delle elezioni e altrettanto rissosa di quella ora giunta a scadenza. Per Salvini, un governo simile sarebbe una pacchia. Non è una buona cosa (è fonte di ulteriori guai, chiunque vinca) metterla tutta, come stanno facendo i nemici di Salvini, sul piano della «mobilitazione antifascista». Vero: è un riflesso antico. La mobilitazione antifascista, al momento delle elezioni, è quanto di più collaudato ci sia in Italia. E ci sono davvero cittadini che diventano attivi in politica solo se si convincono che «c’è il fascismo alle porte». Ma i costi sono elevati. Si mandano in cavalleria i problemi da affrontare. Se la campagna è tutta centrata sulla necessità di sconfiggere il Diavolo, si perde di vista il fatto che il suddetto Diavolo è uno che dà risposte sbagliate a problemi reali. Ne cito due. In un modo o nell’altro bisogna pur mandare ai trafficanti di esseri umani giù fino in fondo all’Africa il messaggio secondo cui noi non siamo disposti ad accogliere tutti coloro che essi vogliono mandarci. Il modo di Salvini è sbagliato, viola le leggi del mare ed è anche inefficace. Bisogna scegliere un altro modo (soprattutto, tentare un qualche accordo in Europa). Ma l’esigenza c’è comunque. Non è una comunità nazionale quella che, di fronte a un problema così importante, non riesce a darsi una politica plausibile, rimanendo appesa al ricatto incrociato degli anti-migranti («tutti fuori») e dei filo-migranti («tutti dentro»). Entrambe le posizioni sono puerili e irrealistiche. Davvero non si può fare di meglio? Oppure, prendiamo il caso della collocazione internazionale. I legami di Salvini con la Russia e il suo antieuropeismo sono inquietanti. E non c’è credibilità nello sventolare la bandiera dell’indipendenza nazionale senza però voler fare nulla per ridurre quella palla al piede (lo è per la politica estera di qualunque Paese) che è il debito pubblico. Non è così che si difende l’interesse nazionale. Ma è anche chiaro che la reazione antieuropea di Salvini e soci è figlia della bugia che per troppo tempo è stata servita agli italiani secondo cui c’era assoluta coincidenza fra il nostro interesse e l’interesse europeo. Non è così. Gli interessi nazionali in Europa contano, e sono spesso in competizione. Il problema consiste nel trovare modi efficaci per difendere il nostro senza sfasciare tutto. Ma se il solo argomento di cui è lecito occuparsi è come battere il Diavolo, di tutto ciò non si parlerà mai. La mobilitazione antifascista ha anche un altro problema: per colpire un partito antisistema ci si allea a un altro partito antisistema, lo si legittima, addirittura lo si coopta, nonostante l’ideologia antiparlamentare, in un nuovo «arco costituzionale» (sic). Ma forse la repentina legittimazione dei 5 Stelle ha stupito solo chi non voleva vedere le affinità culturali, sempre esistite, fra il suddetto movimento e coloro che li stanno legittimando. C’è in Italia un’offerta politica ampia e variegata. Manca forse un partito che abbia, come primo punto programmatico, quello di non voler prendere in giro gli elettori.
(20/8/2019) Le mosse dei leader, Errori, illusioni e realtà, di Angelo Panebianco

Michele Salvati, Il circolo vizioso di ristagno e populismo, Corsera

Non mi aspettavo la crisi politica causata dalla decisione del Presidente del Consiglio di chiedere un voto di fiducia e dall’intenzione della Lega di negarlo. Come altri commentatori, prevedevo continui cedimenti dei 5 stelle nei confronti del pressing di Salvini e poi una legge di Bilancio in cui, con varie scuse, il governo gialloverde si adattasse ai requisiti minimi che l’Europa e il buon senso ci avrebbero imposto al fine di evitare una procedura di infrazione e, assai più temibile, una sanzione dei mercati: eventi disastrosi per il nostro Paese. Abbandonando il terreno infido delle previsioni, vorrei ora limitarmi a un problema che sta a monte della crisi e che però, se non risolto, continuerà ad alimentarla. Perché siamo finiti in questa situazione? Come mai l’Italia è l’unico tra i grandi Paesi dell’Europa occidentale ad essere governato da forze populiste/sovraniste e insieme l’unico in condizioni di ristagno economico così prolungato? La ragione principale di questo poco invidiabile primato sta nel fatto che il nostro Paese anticipa di quasi vent’anni anni il populismo successivo alla grande recessione del 2008 e diffuso oggi in molte democrazie avanzate: la crisi di Mani Pulite agli inizi degli anni 90 del secolo scorso è stata un episodio eccezionale in Europa. E anche prima di allora, almeno a partire dai primi anni 70, le politiche adottate da governi sicuramente non populisti avevano molti tratti in comune con le misure economiche e sociali adottate dal governo giallo-verde: politiche insostenibili nel lungo periodo, costi scaricati tramite il debito sulle generazioni future, incapacità di affrontare riforme impopolari e di attrezzarsi alla più difficile fase di sviluppo conseguente alla fine dei trent’anni gloriosi del dopoguerra. Insomma, il populismo/sovranismo di oggi si innesta su una lunga fase di «pre-populismo», se così vogliamo chiamarlo, di classi dirigenti inadeguate e poco lungimiranti, di politiche lasche, incapaci di contenere e guidare le domande popolari, di riforme mancate o incomplete, generatrici prima di inflazione e poi di disavanzi pubblici insostenibili, culminati nel gigantesco debito pubblico con il quale si chiude la Prima Repubblica. Dopo di allora «pre-populismo» e ristagno procedono intrecciati, alimentandosi l’uno dell’altro. La debolezza e i contrasti del ceto politico impediscono di affrontare riforme favorevoli alla crescita e aggravano il ristagno. Questo a sua volta accresce l’insofferenza degli elettori. Per riguadagnare un consenso elettorale immediato, molti politici rincarano la dose di promesse insostenibili in un contesto economico e istituzionale che va ormai deteriorandosi. La speranza che l’adozione dell’Euro inducesse i nostri governi ad affrontare le riforme necessarie si è rivelata infondata. Ai governi «tecnici» è stato concesso solo il tempo necessario a tamponare gli squilibri finanziari più gravi. C’è allora da meravigliarsi se, nel secondo decennio di questo secolo, quando il virus del populismo si diffonde tra le democrazie avanzate, l’Italia ne risulti contagiata in modo più forte che in altri Paesi, dotati di organismi politici, economici e istituzionali meno debilitati? Uscire da un circolo vizioso di ristagno e populismo è difficile. Rimediare ai guasti economici e istituzionali prodotti da un lungo periodo di cattivo governo richiede molto tempo e gli elettori devono essere convinti che il ceto politico è sulla strada giusta anche se i risultati si fanno attendere e ci sono sacrifici da sopportare. Ma alimentare questa convinzione, ricostruire fiducia in una politica realistica e paziente, è proprio ciò che è più difficile quando si è diffuso il virus populista, quando domina una politica urlata, incompetente, perennemente alla ricerca di capri espiatori e di soluzioni miracolistiche. Se l’analisi ora abbozzata è corretta, ne segue che dal circolo vizioso di ristagno e populismo non usciremo fino a quando gli elettori si convinceranno che il populismo — in particolare nella sua versione antieuropea e sovranista — è una risposta illusoria e pericolosa ai guasti economici e istituzionali dell’Italia, una risposta che ne aggrava il declino invece di arrestarlo. Al momento non sembra che questa convinzione sia diffusa e che le forze antipopuliste abbiano la capacità di renderla prevalente in uno scontro elettorale anticipato. Ma come da ultimo ci ha ricordato Sabino Cassese (Corriere, 18 agosto), in un sistema elettorale proporzionale, in cui i partiti si presentano divisi, gli elettori non hanno votato per il governo giallo-verde che si è costituito in seguito. E soprattutto è inattaccabile la prerogativa costituzionale del Presidente della Repubblica, che è tenuto a ricercare alternative possibili all’interno di un Parlamento eletto soltanto un anno e mezzo fa. E non c’è dubbio che Sergio Mattarella farà di questa sua prerogativa l’uso migliore prima di rassegnarsi ad una prova elettorale che, nelle condizioni attuali, potrebbe avere conseguenze negative per il nostro Paese e per l’intera Unione Europea.