Sull’Espresso del 2 febbraio 2020 Giandomenico Crapis ricorda (La tv a parer suo) in un bellissimo articolo il critico televisivo di “Repubblica” Beniamino Placido a dieci anni dalla morte. Era nato a Rionero del Vulture l’1 febbraio del 1929, è morto a Cambridge il 6 gennaio 2010 assistito dall’unica figlia Barbara che insegna in quella università. Io e Giando abbiamo amato molto Placido, il quale fece della televisione (guardata dal popolo nei paesi e nelle città) un pretesto per parlare dell’Italia e della nostra esistenza su un quotidiano progressista. Placido era un intellettuale finissimo ma soprattutto era arguto e controcorrente. Parlando del vizio del fumo, per esempio, una volta disse che si metteva la sveglia per non dimenticare di fumare l’unica sigaretta che si concedeva al giorno. Adesso voglio farvi leggere alcuni passi di una lettera che scrisse a Barbara l’11 febbraio 1990. Placido è stato sino alla fine un azionista (del Partito d’Azione)
“Non è che sia venuta meno in noi la voglia di volare. Negli “azionisti” non viene mai meno. E adesso tu sai che tuo padre è un “azionista”: non nel senso finanziario del termine, fortunatamente. No, la voglia di volare alto, di non strisciare per terra, di non vegetare, è sempre quella. Ma come si fa a volare? Quand’eravamo ragazzi, a Potenza, ci pensavamo sempre, talvolta ne parlavamo. Una volta, passeggiando passeggiando, ci trovammo sul ponte di Montereale, che è altissimo e maestoso. Uno di noi, che si chiamava Brucoli – e quindi era della dinastia dei gelatai di Potenza, e quindi apparteneva alla buona società potentina – ad un certo punto si affacciò dalla spalletta del ponte, guardò in giù (cinque metri di altezza). Poi prese il suo bastone – si poteva permettere di andare in giro con un bel bastone liberty fra le mani – e lo buttò. Poi chiese a noi – che con lui ci eravamo affacciati a guardare nella valle sottostante – ha volato il mio bastone? Si è fatto forse male? E allora volerò anch’io. Si buttò giù, e si ruppe tutte e due le gambe. La voglia di volare – generosa e legittima – che animava i comunisti classici, che anima oggi alcuni gruppi di studenti, rassomiglia a questa. Non porta da nessuna parte. Solo ai disastri, personali o collettivi. Abbiamo imparato poi a volare. Ma rispettando le leggi di gravità, non violandole. Ma rassegnandoci ad essere – paradossalmente – più pesanti dell’aria, senza illuderci di poter mai diventare più leggeri. Ma costruendoci dei dispositivi artificiali e complessi: estremamente artificiali, estremamente complessi. Che non ci danno la soddisfazione del volo umano, ma ci fanno andare per aria, a rispettabile velocità. E non è questa la civiltà, non è questo il progresso? La civiltà è una continua costruzione di protesi, un assiduo artigianato ortopedico. (…) Provarci sempre, non cedere mai. Senza paura di fare. Senza paura di sbagliare.
Un abbraccio dal tuo papà
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