Ho capito male i Blues Brothers. Li ho capiti male per decine di visioni, e dopo attenti riesami li ho capiti ancora male. E adesso, che compiono quarant’anni, per festeggiare il compleanno tondo ho finalmente capito cosa non avevo capito.
A novembre saranno quarant’anni dall’uscita al cinema (forse ve li ricordate, i cinema: erano posti dove si andavano a vedere i film quando i telefoni si usavano per telefonare e il divano per limonare) di “The Blues Brothers”, il film per girare il quale John Belushi e Dan Aykroyd mollarono il loro posto nel varietà del sabato sera.
Non sto a riassumervelo, perché in quarant’anni, se siete adulti, l’avete visto al cinema e poi in vhs e poi alla tv e poi in dvd e ora, col compiacimento con cui si guardano le cose che si sanno a memoria, in streaming (sul telefono, sul divano).
I primi anni – quando uscì ero alle elementari – ero Jake Blues. Cioè John Belushi. Cioè quello delle cavallette.
La principale scena del film è infatti quella in cui Belushi scopre che a cercare di ucciderli è la sua ex, mollata sull’altare. Interpretata da una tal Carrie Fisher, una che lavorava poco ma faceva solo roba che restasse nella storia (Harry ti presento Sally, Guerre Stellari).
Senza dignità proprio com’ero io quando non avevo fatto le ricerche di geografia e non sapevo dove si coltivassero le barbabietole da zucchero, Belushi si getta in ginocchio e le giura d’avere ottime scuse per non essersi presentato al proprio matrimonio: la gomma bucata, niente soldi per il taxi, il lavasecco che non gli ha ridato il vestito, il funerale della madre, il terremoto, l’inondazione, le cavallette.
Si assiste, a volte, a scene di cui si capisce l’impatto a lungo termine da subito. I Beatles nel ’66. Tardelli nell’82. Bentivoglio e Abatantuono nel ’90. Corrado Guzzanti nel ’97. Il 1980 fu l’anno in cui, a qualunque stadio di sviluppo (bambini, adulti, adolescenti) ci trovassimo in quel momento, capimmo che «le cavallette» ce la saremmo portata dietro tutta la vita. In qualità di cosa? Ecco, l’incomprensione è quella.
Non so se equivocai subito o qualche anno dopo, quando avevo smesso di non studiare i capoluoghi di provincia e iniziato a osservare gli uomini e le donne. Fatto sta che sbagliai clamorosamente: la presi per una frase da mariti.
Tutti i mariti che vedevo avevano un repertorio di cavallette.
C’era un’invasione di cavallette se avevano fatto tardi a prendere il bambino a scuola, un’invasione di cavallette se dovevano chiamare l’idraulico da una settimana e lo scaldabagno era ancora rotto, un’invasione di cavallette se avevano un’irrimandabile partita di calcetto proprio la sera della cena dai suoceri, un’invasione di cavallette che aveva impedito loro di raccogliere calzini, prenotare ristoranti, arrivare puntuali, fare tutto ciò di cui avevano detto «non preoccuparti, ci penso io».
Una quindicina d’anni dopo la prima visione, guardavo le mie amiche con compatimento: passavano la vita a domare allevamenti di cavallette, avevano mariti che non solo ignoravano quali nazioni avessero come importante voce di bilancio la barbabietola da zucchero, ma per il loro non aver fatto i compiti accampavano scuse persino più fantasiose di quelle della mia infanzia.
Fu non sulla terra di Tara, ma su un allevamento d’insetti, che giurai che non avrei avuto cavallette mai più: se Alberto Sordi definiva il matrimonio come «mettersi in casa un’estranea», io avevo capito che il matrimonio era innanzitutto mettersi in casa un cialtrone. Uno che non solo non fa quel che deve, ma ti tocca pure starlo a sentire mentre elenca scuse.
Con la solennità di Rossella O’Hara in mezzo alla carestia, giurai che in casa mia cialtroni non ne sarebbero entrati mai. Vivevo a Roma, quindi bastava uscire sul pianerottolo per incontrarne, ma almeno in casa no. La mia sarebbe stata una vita priva di cialtroni.
Illusa.
Quello che non sapevo era che il cialtrone che ti enumera cavallette non necessariamente è un marito. E non solo perché può benissimo essere una moglie: la cialtroneria, come il disordine, è solo questione di velocità. Chi se ne fotte per primo vince, costringendo l’altro a compensare.
Tutti quelli che sono mai passati da casa mia sono stati ordinatissimi, per una ragione semplice: io sono la meno casalinga del mondo. Se non ci sono più bicchieri puliti, ne compro di plastica. Se le mutande pulite non sono finite, non m’incomodo ad avviare una lavatrice. Volete trasformare un uomo in una perfetta massaia? Non fate niente.
Quello che non sapevo era che i punti deboli variano, e la cialtroneria è in agguato ad attenderli. Certo, se non porti in cucina i piatti sporchi non me ne frega niente. Ma non ho mai tardato sulla consegna d’un lavoro.
Cosa c’entra, diranno i miei ingenui lettori, quelli che non hanno mai lavorato con Belushi (se non hai mai lavorato con Belushi è perché sei Belushi, mi sa).
A quarant’anni dall’uscita al cinema, la vita mi ha punito facendomi capire che c’è una cosa non so se peggiore del mettersi un marito in casa (uno scenario che non riesco a immaginare senza avere un mancamento), ma di sicuro altrettanto grave: dopo una vita in cui lavori da sola, trovarsi a lavorare in gruppo.
Gruppo in cui ci sarà sempre un Belushi che «ci penso io», e poi sparisce. Che «tra poco ti mando», e poi manda dopo una settimana e sette piazzate (piazzate che non sei neanche allenata a fare, non avendo strillato per una vita «non hai studiato le barbabietole da zucchero, se prendi 3 ti tolgo la Playstation»).
Quelle cavallette che la giovane me s’illuse fossero coniugali, o al massimo sentimentali, possono essere anche professionali. E sono molto peggio.
Perché il marito che non ha fatto ciò che doveva lo mandi a dormire sul divano, gli neghi l’accesso alle mutande per sei mesi, rendi la sua quotidianità un inferno in mille deliziosi modi.
Ma col tizio con cui lavori non hai alternative: l’unica cosa che puoi fare è fare il suo lavoro al posto suo, e poi consegnare a nome di entrambi.
Mentre lui, che è cialtrone ma mica è John Landis (il regista e sceneggiatore dei Blues Brothers), inizierà ogni conversazione con «no ma non sai che m’è successo», e le sue cavallette saranno logorii della vita moderna, roba tipo «mi hanno fatto la multa perché ero senza mascherina», e quindi per il trauma non ho potuto lavorare tutto il giorno, «mi hanno fatto il cappuccino troppo bollente», e per la lingua scottata non ho avvisato che neanche oggi avrei fatto il mio dovere.
Sì, puoi sfogarti insultandolo, ridendo in faccia alle sue insufficienti cavallette, prevenendo i monologhi di scuse (gli, come si dice a Roma, rimbalzerà: il cavallettista è privo di senso del ridicolo, nessun «E sentiamo un po’, con quale fantasiosa giustificazione non hai combinato un cazzo manco oggi?» lo scalfirà; tanto varrebbe guardarlo con gli occhi dell’amore come faceva Carrie Fisher, beata lei).
Puoi dirgli le peggio cose, ma non vincerai mai, mai, mai.
Col tizio che ti molla non davanti all’altare ma davanti al file vuoto diventerai ciò da cui pensavi d’essere salva nella tua vita da zitella: quella che gli raccoglie i calzini. (da Linkiesta, 15/10/20)
