Il divano di cittadinanza non interessa a nessuno

Boeri e Perotti su Repubblica spiegano: Secondo una tesi molto popolare, che per comodità chiameremo “il divano di cittadinanza”, le imprese faticherebbero a trovare i lavoratori di cui hanno bisogno perché questi se ne stanno comodamente sdraiati su di un divano con in tasca il Reddito di Cittadinanza.

“Non uno degli estensori di questa teoria si è preoccupato di raccogliere un dato per corroborare la sua tesi. A nessuno è venuto in mente di guardare i dati disponibili (a partire dall’ultimo Rapporto Annuale dell’Inps) su chi sono i percettori del Reddito di cittadinanza. Se lo avessero fatto, si sarebbero resi conto che solo un terzo di questi è in grado di lavorare e ha sottoscritto un Patto per il Lavoro e che, fra questi, una percentuale rilevante deve comunque ricevere formazione prima di essere collocabile. 

Nel caso delle politiche attive del lavoro abbiamo una grande variabilità nelle misure adottate sul territorio nazionale. Questo può essere un vantaggio per capire cosa funziona e cosa no, ma ci vuole qualcuno, dati alla mano, che lo faccia. Oggi l’Anpal, che potrebbe svolgere questo ruolo, non ha i dati per farlo. 

Tutto questo non significa che il Reddito di cittadinanza funzioni a meraviglia. É anzi nostra convinzione che vada riformato. Può darsi che il suo importo sia eccessivo rispetto ai salari medi in certe regioni del Sud, ma l’Italia ha bisogno di uno strumento universale di contrasto alla povertà, che oggi hanno tutti i paesi della Ue. Deve sicuramente migliorare quello esistente, ma non deve abolirlo”.

Fin qui Boeri e Perotti. Il vero problema italiano accanto a quello di trovare lavoro a chi non ce l’ha è la “produttività”, vale a dire chi ha un lavoro stabile nella PA quanto lavoro fa? Basti pensare a vari impiegati pubblici al Sud, senza alcuna formazione in entrata, il cui apporto lavorativo è pari a zero. Non è forse questo un problema che pesa almeno quanto quello dei percettori del reddito di cittadinanza? Sul divano si può stare essendo pagati, questo, a mio parere, è il problema n. 2 dell’Italia contemporanea, il primo essendo quello dell’evasione fiscale. 

E’ LA PA CHE ABBASSA LA MEDIA (Gianni Balduzzi, Linkiesta) A guardare le statistiche ufficiali gli italiani non appaiono degli stakanovisti. Le ore lavorate sono meno che in quasi tutti gli altri Paesi europei, se a essere considerato è il segmento più corposo dei lavoratori, ovvero coloro che sono dipendenti e occupati full time. In media sono 38,8 a settimana. Solo in Danimarca il loro numero è inferiore, di 37,6. La media europea è invece di 39,7 ore e in Austria si raggiungono le 40,8. Differenze apparentemente ridotte, che però nascondono divari nell’organizzazione del lavoro, nelle condizioni economiche, nell’ampiezza dei vari settori nei Paesi.
Il confronto con la Germania è eloquente. In alcuni settori, anzi, i lavoratori italiani trascorrono più tempo in ufficio, in fabbrica, in negozio rispetto ai tedeschi, per esempio in ambiti importantissimi come il commercio, l’alloggio e la ristorazione, la manifattura, e molti altri servizi.

A risultare decisamente sotto la media tedesca ed europea sono altri: sostanzialmente quasi solo i dipendenti pubblici. Quelli genericamente etichettati come addetti della Pubblica Amministrazione e della difesa lavorano circa 3,2 ore in meno che a Monaco o Berlino, ma è soprattutto nel settore dell’educazione che il divario appare enorme. Di circa 10 ore. 29,4 contro 38,5. Più ridotto, di due ore, nella sanità e nei servizi sociali.

Le differenze nella cultura e nell’intrattenimento e nelle attività finanziarie e amministrative ci sono ma sono inferiori a quelle medie.

Naturalmente tali gap sono ancora più visibili se il paragone viene fatto con il Paese più “stakanovista”, cioè l’Austria. Eppure anche in questo caso nel commercio e nella manifattura gli italiani lavorano più ore alla settimana.

Sono divari che si sono mantenuti ampi nel tempo. Il numero di ore lavorate nella Pa è rimasto basso rispetto al resto d’Europa mentre nel commercio e nella manifattura è anzi aumentato il gap con la media UE. Infatti se in questi settori in Spagna o Germania è gradualmente diminuito il tempo dedicato alla propria professione, nel nostro Paese è invece rimasto stabile o è calato di meno. Oggi in Italia in tali ambiti si lavora per più ore che negli altri Stati più importanti dell’Unione Europea. E non potrebbe essere diversamente se la produttività (e quindi i salari) non aumentano. Come non sono cresciuti nel corso degli ultimi anni quasi in nessun settore, al contrario di altre realtà come la Germania o la Francia. Siamo rimasti prigionieri di un immobilismo fatto di un Pil per ora lavorata rimasto quasi fermo, e con esso il salario che può essere generato.Se a questo si aggiunge un settore pubblico in cui il tacito accordo è “ti pago poco, ma in cambio lavori meno”, allora la scarsa produttività del sistema è peggiorata da un comparto statale poco efficiente e dalla disuguaglianza che inevitabilmente si produce. E che forse è da affrontare assieme al tema della competitività del settore privato, perché è innegabile che vi sia strettamente connesso.