Mattarella bis/ Il pagellone di “Repubblica”

LETTA nel taccuino di Letta ci sono sempre stati solo due nomi in cima: Draghi e Mattarella. Sul primo è andata male, sul secondo no. Letta ha giocato di rimessa, lasciandosi scivolare le critiche sulla mancanza di iniziativa del Pd. Ha lasciato che restasse in mano a chi l’ha esercitata solo per bruciare nomi o provare azzardi. Ha pesato, ovviamente, in questa tattica la divergenza su Draghi con Conte. Ecco, se una scia negativa resta incollata all’ex premier, è il rapporto con il capo 5S. Letta ha evitato di enfatizzare le divergenze, ma i due hanno giocato dall’inizio alla fine una partita contrapposta, fino al fallito blitz finale di Conte su Belloni, a braccetto con Salvini. Se il Quirinale doveva essere il banco di prova della nuova coalizione progressista in vista delle elezioni, il test è inquietante. Anche per questo Letta si è schierato ieri per il proporzionale che, per uno come lui, è quasi una bestemmia in chiesa. Ma presentarsi agli elettori con questa finta alleanza sarebbe un grave handicap.
CONTE Il suo principale obiettivo è sempre stato quello di ostacolare l’ascesa di Draghi al Quirinale e su questo, a riprova che per il Colle valgono più i veti che i voti, ha avuto successo. Per il resto, si ritrova a guidare una forza politica lacerata, a un passo dalla scissione di Luigi Di Maio. Il rapporto con Enrico Letta si è logorato. E ora Conte ha davanti a sé una lunga traversata del deserto fino alle elezioni. Reggerà ancora un anno?

RENZI Ha il bel merito di avere svelato e sventato l’inciucio disperato di Salvini e Conte che, maltrattando Elisabetta Belloni, stavano goffamente provando a far saltare il banco e riportare l’Italia al Conte giallo verde, che è stato “il peggiore” di tutti i Conte che via via hanno tradito Conte, benché sia difficile dire che, tra i tanti, ce n’è stato uno “migliore”. Dobbiamo comunque gratitudine a Matteo Renzi, anche se, per scoprire l’imbroglio, ha troppo gridato e, come un temporale, ha tuonato al colpo di mano, non di due aspiranti furbacchioni con l’acqua alla gola, ma nientemeno dei Servizi Segreti, come fosse un Dibattista (di centro). Bighellando e ciondolando, Renzi ha pure sancito una prima, piccola pace con “Enrico stai sereno” e chissà se è vero che, finalmente entrando nel suo “campo largo”, gli ha detto da toscanaccio a toscanuccio: “‘Un te n’avere a male, eh?”. Di sicuro, non si è fatto sedurre dalla destra, come avrebbero voluto i troppi nemici che soprattutto a sinistra si è fatto, con quel caratterino. Ha infatti capito subito che lo scoiattolo di Berlusconi era un’ossessione nostra e una miseria sua. E che dunque Elisabetta Casellati avrebbe fatto, come poi ha fatto, quella brutta figura che a Berlusconi era stata evitata. Non è invece riuscito a diventare il king maker, il regista, e meno male che stavolta non l’ha azzeccata, visto che cavalcava Pierferdinando Casini come una strega cavalca una scopa.

DE MAIO tempismo e nervi saldi, ha imparato la vera politica
Nel naufragio del ceto politico – che non si misura dal risultato, ma dal modo sconfortante con cui vi si è arrivati – Luigi Di Maio si colloca abbastanza nettamente fra i salvati, non fra i sommersi. È stato sostenitore dello spostamento di Draghi al Quirinale, in un’ottica di stabilizzazione del sistema e di rassicurazione delle inquietudini che si sono affacciate all’orizzonte internazionale; ha tenuto testa alla destra, senza strepiti; e si è reso indipendente anche dalle scelte di Conte – in teoria il suo capo politico – a proposito della candidatura di Elisabetta Belloni, prospettata dal leader del M5S e da Salvini, benché della collaborazione dell’ambasciatrice si sia avvalso, con profitto, come ministro degli Esteri. E si è così trovato dalla parte giusta quando si è compreso che solo un Mattarella-bis avrebbe potuto rimettere in sesto il carro della politica, impantanato nella propria impotenza. È giovane, sapeva poco quando, la scorsa legislatura, è entrato in Parlamento, ma ha imparato presto le leggi non scritte degli equilibri politici, e sa muoversi con passo felpato tra molti poteri. Ha tempismo e nervi saldi, che lo accreditano come possibile erede della più scaltra politica democristiana.