Che cosa sarebbe successo se invece di rispondere con le armi all’invasione russa gli ucraini non avessero mosso un dito e avessero lasciato che l’esercito di Putin occupasse tranquillamente Kiev determinando ovviamente la caduta, e magari anche la cattura, di Zelensky? È questa la domanda che bisogna porre a coloro che continuano a esprimere dubbi sull’opportunità e sul senso della resistenza del popolo di quel Paese agli invasori. Che bisogna porre a coloro che con sussiegoso disprezzo hanno parlato addirittura di «mistica della resistenza» di cui sarebbero affetti quegli sciocchi di ucraini.
Sulla risposta alla domanda posta all’inizio è difficile avere dubbi. Non resistere avrebbe voluto dire semplicemente la vittoria totale di Putin nel giro di 48 ore e quindi la sorte dell’Ucraina alla sua mercé. E a quel punto, molto probabilmente, non sarebbero seguite neppure le sanzioni da parte dell’Occidente (o al più finte sanzioni come quelle dopo la Crimea). Invece la resistenza in armi del popolo ucraino c’è stata, vasta e coraggiosa. Ed essa non solo ha già avuto l’effetto di determinare la sconfitta del piano russo (è davvero una cosa così trascurabile?) ma sta pure gettando le premesse per una durissima sconfitta politica dello stesso Putin, con il conseguente forte indebolimento della sua leadership e in prospettiva, chissà, la sua stessa caduta.
È stata la resistenza armata del popolo ucraino, infatti, con la sua stessa esistenza che ha mostrato al mondo sia il fallimento dei servizi d’intelligence sulle cui informazioni il Cremlino ha deciso tre settimane fa l’invasione credendo che si trattasse di una passeggiata, sia le carenze materiali (perfino la mancanza delle razioni alimentari!), il marasma organizzativo e strategico, lo scarso rendimento operativo e la scarsa combattività dell’organismo militare russo.
Lo sappiamo tutti che la resistenza ucraina non può vincere. Ma non può vincere militarmente. Politicamente invece essa ha già stravinto. Già oggi infatti essa ha messo Putin con le spalle al muro. Nella condizione cioè di non avere alternative: o tratta con colui che tre settimane fa voleva distruggere (ma se vuole concludere le trattative deve per forza rinunciare al suo progetto iniziale e cedere su questo o quel punto), oppure può andare avanti con la guerra. E vincere sì, alla fine, ma proprio per la presenza della resistenza sarà costretto a fare dell’Ucraina un mare di rovine abitate da un popolo che lo odia. Ma in un Paese da lui ridotto a un mare di rovine e di morti riuscirà mai a trovare un Quisling che accetti e sia in grado di governare a suo nome? E quanti soldati gli ci vorranno, dopo la cosiddetta vittoria, per presidiare un territorio grande circa due volte la Francia? Quanti soldati dovrà mettere in conto di perdere ogni notte, probabili vittime di un agguato dietro ogni portone, ad ogni angolo di strada? E allora chiediamoci: tutto ciò — questa vera e propria catastrofe politica — di che cosa sarà il frutto se non del fatto che c’è stata una resistenza armata? Del fatto che gli ucraini hanno imbracciato le armi, hanno chiesto le armi per combattere, e l’Occidente gliele ha date? Altro che le condizioni di successo «francamente improbabili» di cui in tanti si sono riempiti la bocca in questi giorni.
È fin dall’inizio, infatti, che dalle più diverse parti, qui in Italia (soprattutto qui in Italia, mi pare) si levano voci sull’inutilità e perfino l’immoralità della resistenza, sull’assoluta inopportunità di rifornirla di armi, sull’«assurdità» della guerra, di ogni guerra in quanto produttrice solo di morte e distruzione. Voci intente a convincerci che di fronte all’eventualità della guerra ogni altra considerazione deve passare in secondo piano di fronte alla necessità della pace: qui, subito, a qualunque costo, e dunque trattare, trattare, trattare. Sempre, con chiunque e comunque.
Dietro tutto ciò c’è molto più di una semplice presa di posizione politica. Si sente una profonda trasformazione del panorama culturale del nostro Paese, in specie delle sue classi colte. Si sente l’oblio ormai diffusissimo del passato, la cancellazione della storia come elemento strutturante dell’esperienza e della mentalità. Si sente l’oblio del carattere tragicamente drammatico che può avere la storia. L’oblio dell’asprezza ultimativa, non compromissoria, dei valori politici collettivi (l’indipendenza nazionale, l’autodeterminazione, la sovranità) cui le scelte dei popoli e dei governi spesso sono chiamate. Nell’Italia contemporanea, viceversa, si è diffusa una mentalità che in alternativa alla storia è andata sempre più ispirandosi non già ai valori politici di cui sopra bensì ai diritti individuali visti come sostanza di una presunta, pacificatrice, etica universale. Una mentalità nella quale, come si capisce, per la guerra e per tutto ciò che è in essa di razionale e di irrazionale, e anche di morale, sì di morale, non può esserci posto. Nella quale la dimensione del conflitto, dei meccanismi e dei sentimenti fatali che lo determinano, la dimensione del coraggio delle persone e delle aspirazioni dei popoli, l’elemento dell’eroismo e della malvagità, appaiono tutte entità dal tratto primitivo da esorcizzare. In questo modo tutto finisce per essere posto sullo stesso piano: i ventenni ucraini che si preparano a combattere i tank russi e Putin che li ha mandati a Kiev, chi lancia i missili e chi li riceve sulla testa. Ed è così che sotto l’urto delle armi che si affrontavano nelle pianure dell’Est l’oblio della storia è divenuto oblio puro e semplice della realtà. E allo stesso modo, priva dell’ancoraggio nella stessa realtà, l’etica si è mutata fatalmente in moralismo: ipocrita come tutti i moralismi. Un’irrealtà moralista dove regna l’algida ragionevolezza del rifiuto della forza, il rifiuto di aiutare il debole e l’aggredito, perché così si violerebbe l’obbligo supremo e della «pace» della «trattativa». Sicché alla fine — paradossalmente ma non troppo — la cultura che pretende di parlare in nome delle vittime, della loro assoluta centralità, diviene di fatto l’alleata della tirannide che produce le vittime stesse.
Non intendo turbare la beata sicurezza dei critici della «mistica della resistenza» così preoccupati di scongiurare le luttuose conseguenze che essa comporta. Forse farebbero bene a ricordare però che la loro libertà odierna di pensare e di scrivere ciò che vogliono non è dipesa da nessuna «trattativa», da nessuna sollecitudine per morti e feriti. La loro libertà è stata pagata anche dal sangue di migliaia di bambini tedeschi massacrati dai bombardieri alleati, è stata pagata anche dal dolore di migliaia di donne tedesche stuprate dai soldati dall’Armata Rossa. Perché la storia è fatta di queste cose terribili: non delle chiacchiere di chi parla per compiacersi dei propri buoni sentimenti.