(ANTONIO PREITI) L’invasione dell’Ucraina ha portato ogni forza politica che s’ispira al populismo a un bivio inequivocabile. Un bivio a cui i suoi leader non riescono a sfuggire, non perché “ricattati” dall’atlantismo o dalla Nato, ma per le ragioni stesse che fondano il populismo. È inequivocabile perché in qualche modo, inatteso forse ma chiarificatore senz’altro, l’invasione ha portato il populismo, a seconda della prospettiva, al suo massimo compimento o al suo vicolo cieco.
Vediamo di spiegare meglio la questione. Il populismo è un sentimento sociale con una componente antropologica molto forte. Possiamo definirlo sia pre-politico, nel senso che pre-esiste alla sua traduzione in termini politici, sia post-politico, perché va oltre le tradizionali divisioni tra destra e sinistra, che ci accompagnano dalla Rivoluzione francese in poi.
Quale che sia, o entrambe le cose che siano, è qualcosa che, nonostante non sia codificato da un Manifesto o da un testo di riferimento, ha un suo “corpus” culturale ben definito: è il frutto di una concatenazione di concetti molto più stringente di quanto non appaia. Anzi, più stravaganti sono le cose sostenute, più bisogna cercare proprio in quelle l’essenza della sua ideologia.
I fondamenti del populismo, indotti ed esplosi in concomitanza e grazie ai social media, in sostanza sono: no alla globalizzazione perché cancella le identità nazionali; no, di conseguenza, all’élite globalizzata, perché trae vantaggi personali a scapito del resto della società; no alla modernità, perché rappresenta l’ideologia attraverso cui la globalizzazione s’impone.
Il sentimento sociale populista non nasce dal nulla, e se cronologicamente e logicamente rappresenta una risposta alla crisi economica del 2008, la sua matrice è solo in parte economica, perché ha a che fare con le identità, con le culture fondanti delle singole comunità e con il rifiuto della dimensione politica come sintesi della società.
L’aspetto che non è stato colto abbastanza del sentimento populista è che la sua natura è emotiva per costituzione, non razionale, anzi tende a valorizzare proprio l’”irrazionalità” delle scelte politiche. Chi volesse una teorizzazione strutturata di come la politica si fondi sull’irrazionalità, piuttosto che sulla razionalità, la trova in Carl Schmitt.
Gli aspetti esoteristici; i richiami ancestrali a una profondità arcana della realtà; le credenze insensate non sono la “prova” della falsità delle tesi, ma il substrato profondo che alimenta la loro traduzione politica. Chi avesse visto “True Detective” con occhi più grandi della vicenda lì sceneggiata, avrebbe capito il sentimento “irrazionale” che avrebbe nutrito il movimento che ha portato alla presidenza Trump.
Negli Stati Uniti, dove questi processi si vedono in maniera più limpida e anticipata rispetto all’Europa, il sentimento populista “irrazionalista” è cresciuto e si è mischiato a quello “socialista” di Bernie Sanders, che ha ereditato e trasformato il movimento “We are the 99%” in una chiave di radicalismo di sinistra. Abbiamo avuto per almeno cinque anni questa crescita degli opposti populismi. Opposti nelle traduzioni politiche, meno opposti nell’humus culturale da cui originano.
L’epidemia crea un primo spartiacque, non chiaro e non evidente all’inizio, ma diventa via via discriminante nell’ultimo periodo. Tutta la lotta ai vaccini è condotta su un piano indistricabilmente legato a quella radice “irrazionale” da cui trae fondamento. La tendenza diventa esplosiva nel momento in cui si crea il Green Pass. È in questo momento che si condensano tutte le immaginazioni ancestrali di una potenza sconosciuta che sta realizzando il “Grande Reset”; che vuole trasformare le nostre società in qualcosa che non abbiamo mai conosciuto, né possiamo conoscere, perché indefinita, e che comunque porta sempre l’impronta di una società che cancella i tratti distintivi dell’identità delle persone e dei luoghi.
Questa volta la narrazione non riguarda solo i mercati o i paesi, ma le persone stesse, ridotte a entità da gestire (magari con il Green Pass) in maniera burocratica e inesorabile. Insomma, è il mondo di Orwell.
In questi stessi anni della pandemia cresce l’infatuazione verso Putin. Una sottile narrazione comincia a sostenere all’inizio del Covid-19 che proprio la globalizzazione, con il suo continuo interscambio di persone e merci, ha se non provocato, certamente diffuso l’epidemia. E in fondo era “ovvio” chiedere l’aiuto della Russia, Paese esente (almeno al tempo) dalla pandemia, perché inteso come più coeso, più tradizionalista e più serrato. Insomma, un modello pronto per l’uso.
Questa vicenda specifica è poco più che una “nuance” rispetto alla ben più poderosa convinzione che Putin possa rappresentare un argine all’affermazione dovunque della globalizzazione e dell’egemonia della nuova élite globalista dei “senza terra”.
Rimane ancora adesso perfetta la definizione di David Goodhart dello scontro in atto, nell’era populista, tra “anywheres”, persone che possono vivere e lavorare dappertutto e i “somewheres”, che possono (e vogliono) stare in un solo luogo e non vogliono che il posto dove vivono cambi natura e identità.
Putin diventa agli occhi dei traduttori politici del populismo il leader “perfetto”, perché incarna la tradizione (il suo legame con la chiesa ortodossa iperconservatrice lo sancisce); perché è l’unico che combatte in maniera chiara la globalizzazione (in fondo la Cina non può e non vuole farlo, perché sulla globalizzazione ha puntato, anzi si propone di sostituire gli Stati Uniti nella sua regia); perché, alla fine dei conti, appare quello che difende il legame delle persone con la terra. Il fattore millenaristico che avevamo visto alla radice del populismo. Il legame tra Putin e la terra, che – come si vede oggi – appartiene piuttosto alla concettualizzazione dell’impero russo, era visto prima come la forza segreta per mantenere la tradizione.
Oggi Putin fa vedere con le armi e con la devastazione di un Paese libero e indipendente, dove porta una concezione che parte dalla coincidenza identitaria tra popolo e terra; tra società civile e Stato; tra religione (sottoposta al potere politico) e Stato. Putin presenta un “compact” di cui sta facendo esperienza drammatica l’Ucraina, in una concatenazione inossidabile dove si passa dallo “Spirito Russo”, che avrebbe diritto alla sua terra, alla conseguente negazione dell’Ucraina come paese distinto, perché senza una propria etnìa, e che dovrebbe dunque obbedire allo “spirito etnico” dell’alba dei tempi e non al diritto internazionale. Le radici si fanno identità; l’identità si fa Stato; lo Stato si fa impero; l’impero fa le guerre d’invasione.
Putin ha creato così la contrapposizione amico-nemico (ancora Schmitt) per cui il nemico è la prova della propria identità e la ragione della propria esistenza. L’Europa, l’Occidente sono il suo nemico essenziale, perché rappresentano, letteralmente, un altro mondo. Da un lato c’è l’asserita (e tutt’altro che dimostrata) spiritualità ancestrale, c’è il popolo (unificato dal sentimento, ma non dal diritto), lo stato che lo invera e il capo che lo guida (lo zar, la steppa e niente in mezzo); dall’altro c’è una società pluralista, una religione distinta dallo stato, una battaglia di opinioni legittima, la permeabilità dei confini e delle identità. Due mondi separati e contrapposti. Una contrapposizione esistenziale: non si può appartenere a tutti e due.
Bisogna anche aggiungere che la società russa nel periodo post-sovietico di democrazia prima tentata e poi via via svuotata, non è rappresentabile più come semplicemente lo zar, la steppa e il nulla, perché si è sviluppata anche lì un’embrionale società civile, e in qualche modo un pluralismo economico (l’avvento di una classe media) e culturale (l’avvento della cultura dell’entertainment): aspetti che alla fine potrebbero essere, oltre e insieme alla resistenza ucraina, decisivi per la sua sconfitta.
Siamo perciò giunti al bivio: siamo davanti a due concezioni del mondo oggi incompatibili (tutt’altro sarebbe se la Russia riprendesse il corso democratico). Come possono movimenti pur ispirati al populismo, ma non assuefatti o convinti delle concatenazioni che portano dritti verso lo stato autoritario e della negazione della democrazia, non contrapporsi a Putin?
Tutto il resto: la diplomazia, che ovviamente esiste sempre e la geo-politica, che può spiegare alcuni atti del mondo, ma non è una teoria del mondo, perché nega il soggetto, cioè la politica, sono dei diversivi, per quanto rilevanti, rispetto a una scelta che non può essere elusa. Una scelta esistenziale, perché costringe a dire chi si è, e qual è il mondo che s’intende costruire, anche qui da noi, da questa parte del mondo.