Davvero il concetto di meritocrazia è profondamente diseguale e ingiusto?

Michael Sandel, filosofo statunitense, docente all’Università di Harvard e autore di La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti (Feltrinelli, 2021) non ha alcun dubbio: «La meritocrazia è ingiusta, la nostra società è troppo competitiva. Invece sono la fortuna e la buona sorte a decidere il successo degli individui, nella maggior parte dei casi. La fede cieca nella meritocrazia ci ha abituato a ritenere erroneamente che chi raggiunge dei benefici se li è guadagnati e perciò li merita. Al contrario, coloro che non ci sono riusciti meritano il loro destino, meritano di essere rimasti indietro e non hanno che da compiangere se stessi», spiega Sandel.

«La meritocrazia nasce come nobile progetto volto ad abbattere il privilegio ereditario, si proponeva come soluzione alla disuguaglianza ma ha promosso un atteggiamento nei confronti del successo che ha rinforzato e rafforzato la disuguaglianza stessa».

Dunque la fortuna e la buona sorte, ancora oggi, sono sinonimi di disponibilità economica, mentre la povertà è sinonimo di pigrizia. Avere alle spalle una famiglia danarosa, potente, conduce verso scelte precise a proposito dell’educazione e dei luoghi in cui riceverla, significa avere viaggiato di più, avere accesso a un giro di contatti che facilita la carriera. In una parola: agevola.

Come sosteneva il sociologo Max Weber, una persona fortunata raramente accetta di essere tale e vuole convincere se stessa e gli altri di aver avuto capacità e meriti. Bisogna che a prendere le decisioni siano i migliori sì, ma chi sono i migliori? Non certo coloro che, dice Sanders, hanno provocato la deregolamentazione dei mercati finanziari, la crisi del 2008, la delocalizzazione delle attività produttive nei paesi a basso reddito, e che si sono resi complici dell’attuale, spaventosa crisi climatica e ambientale. Benissimo, la vecchia élite ha fallito.

(Ma allora, caro Sandel, è preferibile  l’America di Donald Trump, l’Italia di Conte e Matteo Salvini, la Francia di Marine Le Pen, il Brasile di Jair Bolsonaro, il fronte populista e sovranista che ha rappresentato la reazione di un popolo sempre più scollato dalle cosiddette èlite?) 

Afferma ancora Sandel: «La democrazia non richiede un’uguaglianza perfetta tra tutti gli individui, ma che le persone appartenenti a background sociali diversi abbiano la possibilità di incontrarsi e di mischiarsi nel corso della vita quotidiana. Oggi questo non avviene, perché a seconda dell’accesso a determinate risorse economiche mandiamo i figli in scuole diverse, frequentiamo zone diverse della città, scegliamo mete diverse per le vacanze. Ma è attraverso la negoziazione di queste differenze che si costruisce il “common good”, il bene comune». Insomma, occorre più solidarietà. È necessario guardare all’altro secondo un processo di immedesimazione: io potrei essere lui, lui potrebbe essere me.

Ragionamenti come questi del filosofo Sandel (riportati da Benedetta Barone)  sono molto facili da smontare pezzo per pezzo. Uno può passare tutto il tempo a guardare il bicchiere mezzo vuoto per tutte le cose della vita, specializzarsi a considerare gli svantaggi  di ogni cosa senza considerare mai i vantaggi. Per fare un esempio comprensibile io potrei maledire la pioggia che provoca alluvioni e distruzioni dimenticando che essa serve anche per nutrire e rendere fertili i terreni. Maledire il fuoco quando scoppiano gli incendi dimenticando che ci serve per  mangiare, e così via. Tutte le cose umane sono monete a due facce e può capitarci testa o croce, non sempre solo testa o sempre solo croce. Dire che è solo la fortuna o il caso o la ricchezza dei genitori a decretare il successo degli individui significa esprimere una verità parziale perchè è altrettanto vero il contrario, che ci sono individui che hanno ottenuto il successo pur partendo da posizioni marginali e svantaggiate.

Per non farla lunga, vorrei dire che la meritocrazia si capisce bene attraverso la (semplice) visione della prima stagione di una famosa serie televisiva che si chiama Lost. Essa racconta di un aereo che cade su un’ isola deserta, per cui i sopravvissuti si ritrovano a vivere assieme in maniera forzata sperando che prima o poi qualcuno arrivi a recuperarli. E’ una evidente metafora della condizione umana, perchè quelle persone hanno già una vita alle spalle, storie diverse, di ricchezza e povertà, di successi e fallimenti, ma per una fatalità sono costretti a ricominciare da zero, a vivere insieme nello stesso luogo con persone che non hanno scelto, con perfetti sconosciuti. E il disastro ha fatto perdere loro la condizione iniziale, ormai sull’isola deserta non ci sono più ricchi e poveri, uomini e donne, giovani e anziani. Ecco, Lost spiega la meritocrazia perchè fa vedere come col passare del tempo la convivenza obbligata fa emergere non solo un leader (che è un medico saggio ed equilibrato) ma anche un capo religioso ed altre figure più o meno cattive o nobili. Quella comunità improvvisata deve prendere delle decisioni, ogni ora e ogni giorno, e allora occorre affidarsi a qualcuno che favorisca le decisioni che uniscono il gruppo. Ci sarà chi vorrà imporsi con la violenza e la prepotenza ma, senza nemmeno bisogno di votare, ci sarà chi emergerà per il suo carisma e l’empatia. Sarà colui  che guiderà il gruppo, mentre gli incapaci, gli invidiosi, i pigri, i maligni, i violenti, i beni comunisti, staranno all’opposizione a mettere i bastoni tra le ruote. E infine ci sarà un filosofo il quale sentenzierà che il potere di comando è stato conquistato dal più fortunello di tutti. Così è se vi pare.