Stabilire il frame dominante nella contesa politica è cruciale. Lo ha spiegato benissimo l’economista calabrese (1957) Antonio Preiti e riassumo a beneficio dei lettori la sua trattazione. Cos’è il frame? E’ una struttura ideale rappresentativa di qualcosa, un’immagine che ci si stampa in testa e che orienta le nostre reazioni. Un frame semantico imposto da Salvini è stato per esempio “immigrazione”.
Ora ricordiamoci quella giornata del 24 febbraio, quando eravamo incollati a Skytg24, a internet e a tutto il resto, per vedere le immagini degli inviati a Kyiv, per capire la situazione… Cosa sta succedendo?
La parola comune in quei giorni era “invasione”, in consonanza con tutto il mondo occidentale che diceva: “Stop invasion”, “Stop war”.
Non si sa come, il linguaggio da noi è però presto scivolato nell’ambiguità: lo “Stop war” è diventato “No alla guerra”. Lo STOP è diventato NO
Una volta passati dallo “Stop alla guerra” (con l’implicita intuizione che c’è qualcuno che deve fermarsi,) al “No alla guerra”, dove le due parti sono equivalenti, si stabilisce lo scarto del significato e la cristallina separazione tra aggressore e aggredito.
Mentre nello “Stop all’invasione” vi è l’identificazione e l’immedesimazione con qualcuno che una mattina si sveglia e si trova invaso; nel “No alla guerra” c’è una distanza emotiva, un guardare le cose da lontano e dove prima c’era orrore, e ci si sentiva coinvolti, adesso c’è sempre l’orrore, ma da guardare da remoto, senza compassione. E stato il primo passo.
Il secondo è avvenuto con l’ingresso sulla scena mediatica della “geopolitica”, una quasi-scienza che per definizione non è “morale”, non ha aspetti valoriali; come se ci dovessero spiegare una legge della fisica, essi ci spiegano i fattori oggettivi che spingono gli Stati a comportarsi come si comportano. È una sorta di determinismo, neutro e lontano. Allora gli esperti in tv ci spiegano che diventa “naturale” che se uno stato si sente “minacciato”, allora ricorra all’aggressione, anzi alla guerra (non dimenticate che il termine aggressione è ormai scomparso).
Nella geopolitica non c’è posto per le decisioni soggettive, e per la responsabilità di chi le prende, e meno che mai per un giudizio morale: aggressore e aggredito sono sullo stesso piano nella logica geopolitica: uno vuole conquistare e l’altro non vuole farsi conquistare. Così messa la questione, diventano pari. Noi che c’entriamo? Il fatto che un popolo che vive in democrazia e non vuole perderla; che si sente europeo e per questo è disposto a combattere; che vuole difendere i propri confini e la propria indipendenza, non valgono più nulla.
Se il frame non è più l’invasione (atto unilaterale violento), ma “la guerra” (stato delle cose senza espressione di responsabilità), allora ci saranno tutti gli altri corollari come, ad esempio: “Non è l’unica guerra, ma ci sono altre guerre che non consideriamo”, “Anche la Nato ha fatto guerre”, “Le guerre sono tutte negative e non importa chi comincia”, “Bisogna muoversi per la pace” e così via, sommergendo l’“hic et nunc” (il qui e ora specifico: un Paese illegittimamente invaso da un altro) sotto una pletora di opinioni sempre più astratte, sempre più “liberate” dai fatti, sempre più ambigue.
Per altro, spiega sempre il professore vibonese Preiti, un’invasione può finire in generale in tre modi:
1) l’aggressore ritorna sulle sue posizioni di partenza.
2) gli aggrediti si arrendono e finiscono di essere nazione.
3) i contendenti (visto com’è scomparso l’aggressore?) s’accordino su una qualunque soluzione.
Curiosamente tutto il parterre dei “pacifisti” oscilla tra il secondo e il terzo modo di far finire la guerra, ma non sul primo che sarebbe il più ovvio. Il frame del “No alla guerra” ha spostato completamente la semantica del discorso.
Adesso si discute delle ragioni dell’uno e dell’altro e, soprattutto, sentendo la propria impotenza rispetto alla soluzione-principe per far finire la guerra (il ritiro di Putin), chiedono la resa degli ucraini (a loro dispetto, perché hanno dimostrato in tutti i modi possibili e immaginabili che non vogliono farsi conquistare dai Russi) e per ottenere la resa degli ucraini chiedono che l’Occidente non invii loro armi. Risultato? Per avere la pace sono pronti, sempre sulla testa degli Ucraini, a dare la vittoria a Putin.
L’ultimo passaggio, ma non di minore importanza, dello spostamento semantico di queste settimane è determinare chi in questa storia politica è il buono perché fa la scelta morale giusta. I cattivi sono gli altri e sono immorali. E’ semplice allora che quando un Santoro qualsiasi si autodefinisce pacifista perché la guerra è un mostro, chi è favorevole agli aiuti militari agli Ucraini viene definito guerrafondaio.
Loro sono per la pace, ne consegue, ovviamente, che tutti gli altri sono per la guerra (per la continuazione della guerra, per essere esatti). Così il capolavoro semantico è compiuto: chi vuole la pace si erge a paladino del bene e lascia agli altri ciò che rimane dopo aver tolto il bene. Ed è così che la situazione si ribalta: chi ha solidarizzato immediatamente, il 24 febbraio, con l’aggredito, e della cui evidenza di aggredito prima nessuno aveva dubbi, si trova oggi nella posizione dell’aggressore, perché aiuta… gli aggrediti. Basta spostare il frame, occupare il campo semantico del dibattito, e abbiamo così un mondo sottosopra.
Conclude Preiti: “Le bombe, le vittime, i crimini scompaiono dalla mente e rimane una Babilonia di parole che cancella ogni sentimento umano. Quei sentimenti che il 24 febbraio erano nitidi, coinvolgenti e veri. L’ambiguità del linguaggio crea l’ambiguità dei sentimenti e l’ambiguità della politica”.
I pacifisti alla Santoro sono tornati in tv così come c’è stato il ritorno dell’asse gialloverde (Conte-Salvini) in versione pacifista. Non bisogna dimenticare che il voto del 2018 ha eletto un Parlamento per oltre due terzi ostile ai principi fondamentali della democrazia liberale, a stragrande maggioranza antioccidentale e antieuropeista, tra seguaci di Trump, ammiratori di Putin e amici di Orbán.
L’asse gialloverde, ecco la tendenza affermatasi in questi giorni, si è saldato di nuovo sommandosi con l’estremismo politico antiamericano di destra e sinistra presenti da sempre nella politica italiana: questo schieramento politico si ritrova concorde intorno ad un altro frame: la guerra americana per procura (liquidando il popolo ucraino sotto le bombe da due mesi e mezzo come se fosse una pedina irrilevante, privo di una sua propria dignità o diritto di sopravvivenza). Come ha scritto su Twitter Antonio Polito, gli amici di Putin a Cinquestelle sono contrari all’inceneritore a Roma ma favorevoli ad incenerire Mariupol.
Una parte consistente dell’opinione pubblica italiana odia più l’America rispetto a quanto ama il diritto degli ucraini di difendersi. La tesi di fondo per una parte dell’opinione pubblica è : i veri responsabili della guerra non sono i russi, ma gli americani.
È la tesi che i più raffinati definiscono della «guerra per procura», secondo cui gli ucraini avrebbero sostanzialmente il ruolo delle marionette nelle mani della Nato.
Teoria smentita dal fatto che, come tutti sanno, gli americani erano i primi a non credere alla resistenza ucraina, nella convinzione che i russi li avrebbero sbaragliati in un attimo, e proprio per questo Biden aveva offerto a Zelensky un aiuto per scappare. È stato Zelensky a cambiare le carte sul tavolo della politica internazionale, rispondendo che voleva munizioni, non un passaggio. Sono stati gli ucraini, con una resistenza su cui all’inizio nessuno aveva scommesso un centesimo, a cambiare la situazione sul campo e a far ricredere gli stessi americani.
Eppure la storia secondo cui la guerra sarebbe tutto un piano degli Stati Uniti e una manovra della Nato, in cui l’ingenuo Putin avrebbe avuto la colpa di cadere, sui mezzi di comunicazione italiani sembra essere più forte di ogni smentita. Sono settimane in cui si susseguono dichiarazioni di Conte o di Salvini che alludono a quelli che in occidente non vorrebbero la pace.
Salvini è arrivato a dire che «da più dichiarazioni si intuisce che entrambe le parti in guerra vogliano farla finita» (nel momento in cui una delle due parti continua a bombardare l’altra) e il problema sarebbe che «qualcuno dall’altra parte del mondo vuole consumare su campi altrui propri obiettivi geopolitici».
La distanza tra Enrico Letta e Giuseppe Conte è ormai grande quanto quella che c’è tra Finlandia/Svezia (che vogliono entrare nella Nato) e Salvini più i rifondaroli italiani (vogliono che noi gli poniamo il veto mentre noi stessi usciamo dalla Nato).
Eppure Letta e Conte sono impossibilitati a dirsi addio perché la spaccatura sociale e dell’opinione pubblica italiana che abbiamo tratteggiato, riportata dentro la politica, scompagina sia Pd che M5S: solo gli antiamericani (anticapitalisti o antimperialisti del novecento) presenti nei 5Stelle possono andare oggi d’accordo con gli antiamericani presenti nel Pd (i vari Orlando, Bindi, Provenzano, Landini). Quanti siano gli atlantisti filoamericani lo vedremo quando si tratterà di contarsi per davvero.