Comunque finisca la telenovela delle alleanze una cosa è sicura: non finirà affatto

Questi primissimi giorni di campagna elettorale ci hanno dato un assaggio di quello che ci aspetta, a sinistra, almeno fino al giorno della presentazione delle liste: un dibattito interamente occupato dall’appassionante questione delle alleanze. Chi va con chi, vengo anch’io, no tu no, ma perché? E via cantilenando

Il bello è che lo stesso tema dominerà anche tutto il resto della campagna elettorale, una volta che le liste saranno state definite e presentate, con l’unica differenza che il dibattito avrà, da quel momento in poi, un carattere retrospettivo: chi è andato con chi, poteva venire anche lui, no lui no, ma perché? E via recriminando.

L’unico vantaggio è che tutto questo, a sinistra, servirà almeno da riscaldamento per il dibattito che verrà dopo le elezioni, cioè dopo la sconfitta (come nel 2001, nel 2008 e nel 2018), il non-pareggio (come nel 2006) o la non-vittoria (come nel 2013). Indipendentemente dall’estensione della coalizione, infatti, il centrosinistra ha vinto pienamente soltanto nel 1996, la prima volta in cui si presentò unito, e solo perché il centrodestra, invece, si presentò diviso (errore che si guarderà bene dal ripetere, di lì in poi).

Comunque finisca dunque l’insopportabile telenovela sul campo aperto (con Calenda e senza Di Maio? Con Speranza e senza Renzi? Con Conte ma senza Calenda?), una cosa è sicura: non finirà affatto. Non finirà mai. Perché non è mai finito. Nel 2013 parlavamo della cervellotica «alleanza a due cerchi» di Pier Luigi Bersani (ve l’eravate dimenticata?), nel 2022 parliamo della coalizione «a quattro punte» e persino di un’ipotesi di «alleanza tattica» con i cinquestelle (ancora migliore la definizione che ne dava ieri un retroscena di Tommaso Ciriaco su Repubblica: «Alleanza non politica»). Quale che sia l’accordo che alla fine si troverà, o non si troverà, potete star certi che continueremo a discuterne fino al giorno del voto, e anche dopo.

Se l’alleanza sarà larga e composita, discuteremo di quanto sono litigiosi, e figuriamoci come potranno governare insieme (del resto, neanche sono partiti e già hanno cominciato a bisticciare, sia su chi debba entrare o non entrare nella coalizione, sia su chi debba andare a Palazzo Chigi); se l’alleanza sarà invece stretta e omogenea, discuteremo di tutti quelli che saranno rimasti fuori. E di conseguenza, se fuori saranno rimasti quelli di sinistra, sarà la prova che il centrosinistra ha perso i valori e l’identità; se fuori saranno rimasti invece quelli di centro, sarà la prova che il centrosinistra non ha abbastanza cultura di governo, e sono sempre i soliti estremisti e demagoghi.

Andrà così anche questa volta, come sempre, ed è giusto che vada così, considerato che anche questa volta, come ogni volta, la prima trovata del nuovo segretario del Pd è stata rilanciare il maggioritario, illudendosi di potere polarizzare la campagna in uno scontro con Giorgia Meloni, come già provò a fare Walter Veltroni con Silvio Berlusconi nel 2008 (consegnando al centrodestra una maggioranza talmente schiacciante che nemmeno la scissione finiana bastò a intaccarla, e ci volle lo spread a 575 punti per indurre il presidente del Consiglio alle dimissioni).

Da trent’anni, illudendosi di avvantaggiarsene, i leader del centrosinistra si impiccano a una legge elettorale che di fatto impone le ammucchiate, per poi dividersi tra chi vuole suicidarsi da solo e chi preferisce suicidarsi in compagnia. Ma l’esito, dal 2001 a oggi, è sempre lo stesso: sconfitte epocali o non-vittorie talmente risicate da non reggere un minuto in Parlamento, costringendo poi a quella sfilza di governi di grande o grandissima coalizione che sono diventati il marchio di fabbrica del Pd. Marchio che andrebbe benissimo in un sistema proporzionale, intendiamoci, ma è ovviamente il bacio della morte alla vigilia di una campagna elettorale all’insegna del bipolarismo (o addirittura di un finto bipartitismo). Non per niente, ogni volta, i dirigenti del Pd devono cominciare a battersi il petto spergiurando che non lo faranno mai più.

Siccome però in questa legislatura, oltre a non avere varato una legge elettorale proporzionale, hanno anche appoggiato il taglio lineare dei parlamentari, è in effetti probabile che all’indomani del voto non ci sia alcun bisogno di grandi coalizioni, visto che il centrodestra potrebbe avere i numeri non solo per governare, ma pure per decidere da solo tutte le cariche istituzionali e di garanzia, nonché per riscrivere la Costituzione a suo piacimento.

E adesso, per evitare un simile pericolo, obiettivamente non piccolo, indovinate chi dovreste votare.