(Alberto Brambilla) In un Paese come l’Italia dove, secondo i dati Ocse, negli ultimi 40 anni il valore reale dei salari e dei redditi è diminuito del 2,9%, è possibile migliorare il potere d’acquisto senza generare nuova spesa pubblica a debito? La risposta è sì; non sarà un passaggio semplice, ma la strada è stata tracciata dal governo Draghi (vedi più avanti nel testo), un’autostrada se i vincitori delle prossime elezioni politiche la vorranno percorrere. Certo occorrerà cambiare mentalità: vanno modernizzati i contratti di lavoro e quindi l’approccio di sindacati e imprese; deve mutare la politica fiscale e contributiva secondo la quale tutto ciò che si guadagna dev’essere soggetto a tasse e contributi e soprattutto si dovranno accantonare le irrealizzabili promesse dei vari partiti politici.
Mi riferisco alla proposta Letta/Pd della 14esima mensilità che costerebbe 19 miliardi strutturali per ogni anno, dato che per garantirla si dovrebbero «abbuonare» a tutti i lavoratori fino a circa 29 mila euro lordi l’anno oltre il 7,5% dei contributi lasciando però la pensione inalterata.
Tra decontribuzione e flat tax
Stesso discorso per la proposta di Berlusconi che dopo i mille euro al mese di pensione per tutti (costo oltre 30 miliardi ogni anno) e dopo i mille euro a mamme e nonne (ogni milione di mamme e nonne costerebbe 13 miliardi e se fossero anche solo tre facciamo il botto), propone la decontribuzione totale per i primi due anni per tutti i giovani assunti (fino a che età?) che costerebbe quasi 8 miliardi considerando solo i redditi fino a 25 mila euro lordi. Insomma, il Cavaliere ha fatto promesse per una ottantina di miliardi, oltre 100 con la flat tax: mica male.
Il cuneo fiscale
Anche sindacati e Confindustria, accortisi che il fantomatico cuneo fiscale non esiste almeno per oltre il 70% dei redditi degli italiani, si sono buttati a capofitto nella richiesta di «decontribuzione» in quanto nessuno dei due richiedenti vuole assumersi l’onta di ridurre le pensioni e le conquiste sociali quali le prestazioni di maternità, malattia, infortuni, disoccupazione, ex Anf (assegni al nucleo familiare) che determinano per ogni 100 euro netti in busta paga, un costo di 150, che diventano circa 220 considerando i benefici contrattuali (13° e 14° mensilità, premi di produzione, Tfr, banca delle ore, ferie, festività, previdenza complementare, permessi e altro). Forse i proponenti non sanno che già oggi le 22 forme di decontribuzione costano 24 miliardi l’anno di cui il 65,6% del totale per il Mezzogiorno, 21,2% per gli apprendisti, 5,8% e 4,8% rispettivamente per gli under 35 e le donne (dati Inapp).
Tra il 2011 e il 2020, il Rapporto di Itinerari Previdenziali evidenzia che per finanziare gli sgravi contributivi a favore di lavoratori e imprese per favorire le assunzioni sono stati spesi 168 miliardi, con scarsi risultati: su 36,5 milioni di italiani in età da lavoro, lavorano solo 23 milioni (il 39% contro oltre il 51% dei nostri competitor), gli altri tra Neet, sussidi, reddito di cittadinanza e ammortizzatori sociali, se ne stanno a casa nonostante manchino bagnini, cuochi, camerieri, operai ecc.
L’esperienza del Sud e il divieto della Ue
Inoltre, politici e parti sociali hanno la memoria corta. La decontribuzione totale per il Sud (sconto del 33% per i dipendenti) è durata circa 25 anni fino a quando l’Ue, ritenendoli aiuti di stato ha messo in procedura d’infrazione l’Italia; è costata centinaia di miliardi ma aumento di posti di lavoro pari a zero. Stessi risultati per gli sgravi del governo Renzi: certo hanno aiutato a creare nuova occupazione anche perché l’economia galoppava ma finito il ciclo positivo il tasso di occupazione è tornato al punto di partenza nonostante gli oltre 17 miliardi (stima Inps) spesi tra il 2015 e il 2018. E quindi come fare?
I «600 euro» di Draghi
Come dicevamo il governo Draghi con l’articolo 12 del decreto legge n. 115/2022, (il decreto Aiuti bis) ha previsto che le somme versate dal datore di lavoro ai lavoratori esentate dal pagamento di contributi sociali e imposte previste all’articolo 51, comma 3, del Testo unico delle imposte sui redditi nel limite di 258,23 euro, per l’anno 2022 vengano elevate a 600 euro ed erogate in modo semplice e diretto come «rimborsi da parte del datore di lavoro per il pagamento delle bollette di acqua, luce e gas». Si tratta di 600 euro deducibili per il datore di lavoro e netti per il lavoratore e che non generano alcun incremento di pensione non essendo assoggettati a contribuzione.
Tra l’8,8% e il 14,7% di reddito disponibile in più
Se si estendesse questa innovazione anche al welfare aziendale, eliminando l’eccessivo iter burocratico che ha affossato la possibilità di percepire fino a 3 mila euro in esenzione fiscale e contributiva, e lo si portasse a 2.000 euro l’anno netti, l’incremento medio per i redditi fino a 15 e 25 mila euro sarebbe rispettivamente del 14,7% e dell’8,8%. Il governo Draghi ha inoltre previsto in modo sperimentale il «bonus trasporti» pari a 60 euro l’anno. Se al posto del click day si copiasse la vicina Svizzera e si portasse la quota di rimborso del datore di lavoro a 600 euro l’anno con le stesse esenzioni già indicate e se al posto dei miseri 6,5 euro al giorno per il buono pasto cartaceo e gli 8 euro per quello elettronico, si elevasse la cifra a 12 euro, sempre a carico del datore di lavoro e con le esenzioni indicate, i dipendenti si troverebbero un ulteriore netto di 900 euro l’anno.
L’impatto sulle pensioni
Riepilogando, la differenza tra decontribuzione e queste erogazioni di retribuzione esente (cioè netta da imposte e contributi) è che la prima costa allo Stato sia per trasferimenti di contributi figurativi agli enti previdenziali sia per rivalutazione degli stessi e poi come pagamento della pensione mentre l’erogazione, fa perdere allo Stato solo l’Irpef (in media per redditi fino a 25 mila euro con persone a carico, meno del 5%) che viene abbondantemente recuperata con la tassazione diretta e indiretta quando queste somme vengono spese (Iva, accise, Ires, Irpef) ed essendo a totale carico delle imprese, non genera oneri per lo Stato.
L’aumento netto in busta ammonterebbe a 3.500 euro l’anno, ben il 10% per un lordo di 35 mila euro e il 17,5% per 20 mila euro di lordo, portando i redditi italiani a livello dei migliori Paesi europei. Anche per gli autonomi si possono studiare misure compensative. È così difficile?