(giuliano cazzola) Il vero nemico della destra è la società aperta, perché solo nell’isolamento e nell’autarchia ci si può illudere che nulla cambi. Ecco allora che i nemici delle classi lavoratrici non sono più i padroni, ma quelle forze politiche che, tra mille difficoltà e contraddizioni, cercano di riposizionare i fondamentali diritti sociali all’interno dei nuovi assetti dell’economia; che è poi il solo modo per poterli difendere e trasmettere alle generazioni future.
In questa campagna elettorale – mutatis mutandis – sono emersi toni da Terza Internazionale, quando i principali avversari dei massimalisti e dei comunisti non erano i fascisti e i nazisti, ma la socialdemocrazia. Tra i 21 punti che Lenin aveva imposto al Psi per essere accolto nell’Internazionale c’era l’espulsione dei riformisti.
La maggioranza massimalista di Giacinto Menotti Serrati si rifiutò di compiere questa operazione al Congresso di Livorno nel 1921 (da qui ebbe luogo la scissione del Pc d’I). Ma, poi, Serrati dovette cedere l’anno dopo, poche settimane prima della Marcia su Roma.
Paradossalmente nel dibattito elettorale di questi mesi è emersa una singolare teoria: la classe lavoratrice vota a destra perché la sinistra non svolge più la sua missione.
Ne deriva che, per risorgere, la sinistra deve ritrovare se stessa. E bandire il deviazionismo riformista.
Il regista Ken Loach – sommo guru della gauche – si è fatto latore di un messaggio in vista del voto di domenica: «Le persone votano per la destra quando sono spaventate, insicure e non hanno fiducia e questa è una diretta conseguenza del fallimento del centrosinistra, dei socialdemocratrici», ha detto il regista in piena logica terzointernazionalista. «Loro sono i responsabili perché hanno negato e non hanno rappresentato i bisogni della classe operaia. La lezione che dobbiamo trarre è che dobbiamo creare una nuova sinistra unita il cui programma sia dedicato a beni comuni, controllo democratico, protezione dell’ambiente e difesa dei servizi pubblici», ha aggiunto.
Durante la campagna elettorale le medesime considerazioni erano venute anche da autorevoli esponenti del Partito democratico. Quale è stata – secondo le nuove teorie – la Grande Eresia che ha tarpato le ali all’angelo vendicatore della sinistra con le carte in regola? Il pacchetto del jobs act, che è composto da una legge delega e da 8 decreti delegati, ma per i redenti tutto si riduce all’istituzione del contratto a tutele crescenti e alla disciplina ivi prevista per il licenziamento individuale illegittimo.
Andrea Orlando, ministro del Lavoro (in sonno), lo ha ammesso in una intervista: «Il Jobs act non è stato solo l’abolizione dell’articolo 18, è stata l’ultima grande scommessa liberista sul mercato del lavoro di una serie che inizia negli anni Novanta, e a cui la sinistra ha partecipato».
Enrico Letta si è spinto più avanti a Cernobbio. Si è esposto – insieme alla critica del Jobs act – anche all’abiura della terza via di Tony Blair: «Il programma del Pd supera finalmente il Jobs Act, sul modello di quanto fatto in Spagna contro il lavoro povero e precario. Il blairismo è archiviato. In tutta Europa sono rimasti solo Renzi e Calenda ad agitarlo come un feticcio ideologico».
Spero che arrivi un giorno in cui i nuovi leader di una sinistra avviata verso una sconfitta storica spieghino come ha potuto Tony Blair governare per 10 anni ininterrotti, senza mai essere battuto in una elezione. Dopo di lui il Labour sta ancora a pettinare le bambole.