Arrivederci Mario ciao, le nubi sono già più in là, finisce qui, cantava il poeta, arrivederci e non addio perché a meno che l’Italia non sia definitivamente impazzita non si può escludere un ritorno di Mario Draghi magari in altra, e più alta, posizione istituzionale. Ora il problema è che viviamo in un tempo matto che gira le pagine e dimentica quel che si è appena letto, come succede ai bambini con i romanzi di avventure, conta solo quello che hai sotto gli occhi, lo chiamano presentismo cioè la dannazione della memoria di appena ieri.
Da ieri Draghi è un ricordo che bisogna sforzarsi di ricordare, sovrastato com’è dal presentismo televisivo e social che immediatamente schiaccia il tasto reset cancellando quello che c’era fino a un attimo fa, un’immagine coperta dai mocassini e dai tacchi di Giorgia Meloni, dalla ingombrante immagine genuinamente reazionaria di molti ministri e dalla pochezza degli altri, per tacere degli sguardi vispi e malandrini dei nuovi presidenti delle Camere.
Quel che resta di Draghi in realtà è moltissimo, una gran semina che non sappiamo se germoglierà, è un patrimonio di tante piccole pietre preziose la cui caratura sarà meglio valutata in avvenire. Oggi, come detto, il Paese è immerso negli occhi di Meloni (occhi che, noi che scriviamo, abbiamo da vicino visto piangere in una circostanza quanto mai struggente, è stato un momento molto particolare) e di quella campanella che l’ex presidente del Consiglio le ha passato con sorriso da nonno delle istituzioni.
Pochi dubbi sul fatto che il governo di Mario Draghi è stato per tante ragioni il migliore della storia repubblicana pur scontando – ma forse è stata una fortuna – una debolezza della politica che in teoria avrebbe dovuto dargli forza: no, Draghi la forza l’ha trovata da sé, proprio come fece capire con la sua battuta, «se per caso dovessi cercarmi un lavoro dopo questa esperienza, me lo trovo da solo» (conferenza stampa dell’11 febbraio 2022), non dunque contro la politica ma a prescindere da essa. Non è stato, tutt’altro, un populista che ha giocato contro la politica, ha rappresentato piuttosto il punto più alto della società che si fa politica. Da questo punto di vista, l’ex presidente del Consiglio è stato un unicum.
La figura più accostabile a lui è quella di Mario Monti – tecnico, senza partito, a capo anch’egli di un governo di unità nazionale – ma Monti è stato molto meno politico di Draghi e più sensibile alle lusinghe del potere, infatti formò un suo partito personale.
L’ex governatore della Banca centrale europea è un grande italiano e al tempo stesso il più internazionale dei presidenti del Consiglio italiani, fino al capolavoro dell’ultima notte di Bruxelles nella quale è bastata una sua minaccia contro l’ennesimo gnè gnè dei falchi per far passare sul tema dell’energia la soluzione indicata dall’Italia con l’ultima terribile invettiva: «Altrimenti aiutereste Putin».
Di compromessi Draghi ne ha fatti certamente, di cedimenti mai. Tantomeno sulle questioni di principio. Ha usato l’immagine, ma più forte ne era il senso e più dimessa ne era la rappresentazione: quel treno per Kijiv con Macron e Scholz tutti in manica di camicia resta la più bella fotografia dell’Europa come dovrebbe essere e come difficilmente sarà ancora, adesso che SuperMario non può più impartire le sue lezioni a voce bassa come rivelò Pedro Sanchez: «Quando parla lui stiamo tutti in silenzio».
C’è stato un momento, un lungo momento, in cui l’Italia era draghiana: dopo l’epoca del gratta e vinci di Giuseppe Conte, il nuovo governo tecnico aveva sostanzialmente messo a posto le questioni della vaccinazione, dei conti, della ripresa, della produttività e, appunto, occupato un ruolo di leadership europea come mai era avvenuto, e il Paese aveva scoperto che si può fare politica capendo di politica, economia, politica estera, e si era abituato a un tono non urlato, a uno stile sobrio, non invasivo, se vogliamo non telegenico, e che statista non è un aggettivo retorico ma una precisa qualificazione storica.
Dopo anni di Paola Taverna, Danilo Toninelli e Papeete è stata una boccata d’aria pura. Persino i giornalisti politici, che sono i più cinici di una categoria cinica, avevano preso a seguire con interesse e deferenza le conferenze stampa del presidente del Consiglio. Una situazione che il populismo non poteva tollerare, pena la sua progressiva emarginazione, e infatti Conte fece cadere il miglior governo possibile. Sappiamo chi ha raccolto i frutti: la destra, secondo una traiettoria classica conosciuta già più di cent’anni fa.
Draghi insomma è stato il frutto migliore della società migliore fatta di cultura, stile, conoscenza, il contrario dell’Italietta degli altri governi, chi più chi meno, un grande italiano che ha fatto gli interessi del suo Paese e perciò dell’Europa, e la speranza che lascia è appunto che bisogna credere nella società italiana proprio ora che la politica si fa più grigia, perché alla fine è la società che manda avanti questo disgraziato Paese, e sarà la società, più che le opposizioni parlamentari, a dire i no che andranno detti al governo di destra. Arrivederci dunque Presidente, di più non era possibile fare.