Pd ti devi decidere/ Prima l’identità e poi le alleanze. E che vuol dire?

Mario Lavia su Linkiesta ha scritto che dal 25 settembre la sinistra è ferma su una non-linea indefinita, incapace di decidere tra la testimonianza minoritaria-populista, al fianco dei Cinquestelle, o la vocazione riformista e di governo con il Terzo Polo. E così, mentre è in gioco il suo destino, il Partito democratico non sembra rendersene conto, esattamente come i protagonisti del Giardino dei ciliegi che chiacchierano del più e del meno mentre vanno in rovina. E la gran commedia di Cechov, com’è noto, non finisce bene.

Se si scorre la piccola enciclopedia del grande dibattito sul futuro del Partito democratico apertosi sulle pagine di Repubblica vi si trova di tutto: dal primato dell’ambiente a quello del femminismo, dal ruolo dei cattolici all’orizzonte socialista o laburista, dal partito del radicalismo a quello liberale e moderato, dal ruolo dei sindaci alla ricostruzione di un vocabolario di sinistra, ce n’è per tutti.

C’era già tutto nel caleidoscopio del Partito democratico quando nacque nel 2007 con Walter Veltroni. Si è visto negli anni come l’amalgama attraverso il “ma anche” non riesca, non è più tempo di sommatorie ma di sintesi, di scelte chiare, basta con il dire tutto e il contrario di tutto. Insomma, così come l’uomo è ciò che mangia, un partito è ciò che propone. O stai con i giovani o con i pensionati, non puoi stare con i giovani ma anche con i pensionati.

Ora, la domanda attuale, ricca di implicazioni sull’identità e sul futuro del Partito democratico, è semplice e non è affatto banale: andare verso il partito di Giuseppe Conte che formalmente si chiama ancora Movimento 5 Stelle o verso i liberaldemocratici del Terzo Polo? Dimmi con chi vai, diceva un proverbio, e ti dirò chi sei.

E’ la domanda che hanno fatto a Eli Schlein dalla Gruber e come al solito anche lei, la giovane promessa poliglotta, l’intellettuale femminista ecologista anticapitalista e antiliberista, quando le chiedono delle alleanze, ingrana la poesiola sull’identità. Prima discutiamo sull’identità (chi siamo, cosa vogliamo, dove andiamo…) e poi parleremo con gli altri e magari troveremo una convergenza nel campo largo. Cioè, detto in altri termini, se ci farete caso la Schlein, in compagnia di tutti quelli che vorrebbero non appiattirsi su Calenda o su Conte, allorchè parla di identità poi finisce sempre con il campo largo (l’Unione o la carovana). Che poi è stata la tattica di Letta & C  sino a quando Conte non ha fatto cadere Draghi. Così come tentò di fare Veltroni con la vocazione maggioritaria, solo che all’ultimo imbarcò giusto Di Pietro, ricordate? L’identità ha un senso se parti dai contenuti precisi di un programma, e se però le scelte sono nette e non generiche. Nucleare si o no, termovalorizzatori si o no, come riduci evasione fiscale e lavoro nero…  

La Schlein, secondo Cerasa, ” ha scelto di offrire al Pd una piattaforma programmatica vaga, a metà tra il corbynismo e il sandersismo, interessata più ai diritti che ai doveri, ancorata ai simboli di una sinistra movimentista, movimentista al punto di essere pronta a rinnegare la stagione di responsabilità atlantista del Pd, che come suo primo obiettivo ha quello di considerare sostanzialmente di destra, anzi di destra neoliberista, buona parte del passato recente del Pd (lo schema è sempre lo stesso: se sei popolare e piaci anche agli elettori non di sinistra significa che sei di destra)”.

Secondo Lavia in questa lunga seduta di psicanalisi per capire «chi siamo e cosa vogliamo», come si diceva nel Sessantotto, si rimandano a un domani indistinto le scelte che bisogna fare oggi: come se l’identità fosse una categoria dello spirito e non la risultante di un’azione politica.

Mélenchon o Macron?

Cioè scegliere la testimonianza minoritaria-populista o riprendere la vocazione riformista di governo? Alla fine è stato proprio non aver sciolto per tempo questo dilemma, oscillando tra la passione per Conte e quella per Draghi, che Enrico Letta è arrivato alla campagna elettorale senza una proposta politica mentre tutti gli altri una linea ce l’avevano, e la destra più chiara degli altri.

Il Partito democratico ha corso dunque zavorrato da questa incapacità di indicare un’uscita politica per il Paese, ed è naturale che abbia perso. Il barcamenarsi è stata una non-linea: un po’ con questo, un po’ con quello e quindi con nessuno, ma non perché sei forte, ma per il suo contrario.

Il fatto è che finora, proprio nel tentativo di partire dall’identità e non dalla scelta delle alleanze, in campo c’è solo un manifesto redatto dai laburisti (Bentivogli, Ceccanti, Morando, Nannicini, Ichino, Ranieri, Tonini Leonardi, Butera e altri) dove si esplicitano contenuti sotto il titolo eloquente “Proteggere l’Italia dai populismi di destra e sinistra”. Un manifesto, che io, senza avere la tessera del pd, condivido parola per parola, e che tuttavia mi appare ben lontano da tutti quelli che, Schlein compresa, si arroccano intorno al concetto di “diseguaglianze“. Anche Bentivogli parla e parte dalle diseguaglianze ma afferma: Combattere le diseguaglianze con la crescita. Scommettere su una transizione ecologica compatibile con la difesa del benessere. Aprire una nuova fase sui salari. Ciò facendo, inserendo il concetto di “crescita” accanto alle “diseguaglianze”, si aliena le simpatie di tutti gli anticapitalisti che invece sono tutti innamorati della decrescita felice. Non parliamo poi della transizione ecologica, che Bentivogli coniuga con “la difesa del benessere” e che al contrario in senso ideologico può diventare “No” a tutto.

(STEFANO CINGOLANI) POVERI E DISUGUAGLIANZE In Italia la destra è scesa in campo contro i ricchi protetti e garantiti dalla sinistra delle Ztl (i radical chic, i bo-bo, la gauche caviar, i pariolini, insomma, le definizioni abbondano). E agita lo spettro di un impoverimento crescente a causa delle politiche di austerità imposte dagli eurocrati e dai politici asserviti ai bankster, i quali sono stati chiamati, orrore orrore, persino al governo (e dagli contro i Mario Monti o i Mario Draghi). Anche la sinistra, non solo quella radicale, ha battuto la grancassa contro il neoliberismo e il neocapitalismo (c’è sempre un neo sempre peggiore del vecchio). Parlare di povertà, dunque, è diventata una giaculatoria stantia.

La crescita ancora una volta è la premessa per ridurre diseguaglianze e povertà, nell’ultimo biennio il prodotto lordo è aumentato come mai, consentendo un recupero del pil perduto con la pandemia. Sembra lapalissiano, così non è. Il governo Meloni insiste nel mettere al centro non la creazione di nuovo reddito nazionale, ma la distribuzione di quello che già c’è. In questo modo si trova con sempre meno risorse da spendere e sempre più gridi di dolore che salgono da ogni parte della nazione e restano inascoltati, per forza di cose.

Ha sofferto di più chi aveva meno di quarant’anni, se l’è cavata meglio chi aveva più di sessant’anni. La spiegazione è semplice: i pensionati hanno mantenuto il loro reddito, chi lavora invece o ha perduto il posto o ha visto ridursi la paga durante la crisi; e poi tra i giovani c’è il più grande serbatoio di disoccupati.

Dunque distribuzione della ricchezza e povertà relativa sono strettamente collegate all’andamento dell’economia: per avere più giustizia e meno povertà bisogna crescere.

La conferma si trova anche nei paragoni internazionali: l’Italia negli ultimi vent’anni è il paese dove salari e stipendi sono aumentati meno, ma ciò non è vero per le pensioni, i cui trattamenti sono anche migliori rispetto a paesi del nord Europa.

Sembra lapalissiano, basta il buon senso, eppure il circo mediatico politico sostiene che i pensionati stanno peggio di tutti, si chiedono i voti promettendo pensioni più alte con uscita dal lavoro prima possibile, nascondendo che così in pochi anni verrebbe a mancare la base contributiva che consente all’Inps di erogare l’assegno: i pensionati sono già 16 milioni, i lavoratori dipendenti 18 milioni, i lavoratori autonomi 5 milioni e pagano poco per le pensioni, ancora meno per i contributi sociali. L’indagine della Banca d’Italia mette in risalto che un costo pesante è caduto sugli immigrati, sono loro ad aver pagato più degli altri la crisi perdendo reddito e lavoro.

L’inflazione ci fa tutti più poveri: ecco un altro luogo comune pressoché inattaccabile. Se fosse vero, nei dieci anni di inflazione vicina allo zero saremmo dovuti diventare tutti più ricchi. Ma soprattutto non è vero che siamo tutti colpiti allo stesso modo. Il deprezzamento della moneta riduce i redditi fissi, non quelli variabili che in genere si aggiustano verso l’altro.  La storia dimostra che in genere le vittime dell’inflazione sono i risparmiatori, gli operai, gli impiegati (persino quando c’era la scala mobile che oltre tutto faceva rimbalzare sempre più in alto i prezzi), mentre ne traggono vantaggio i debitori e i percettori di redditi autonomi. Anche con l’inflazione, dunque, c’è povero e povero. Meglio non dirlo a chi come i grillini aveva cantato vittoria grazie al reddito di cittadinanza; ora s’apprestano a difenderlo piazza per piazza e… boia chi molla, lo gridava Ciccio Franco nel 1970 a Reggio Calabria, lo sentiremo ancora.

Attenzione, finora abbiamo parlato di povertà relativa, ma i poveri più poveri, quelli che non sbarcano il lunario? E’ vero che sono aumentati? La Caritas dice che colpisce un milione e 960 mila famiglie, pari a cinque milioni e mezzo di persone, quasi il 10 per cento della popolazione, una percentuale enorme, forse eccessiva. La situazione è peggiore tra i giovani che tra gli anziani – rispettivamente 11,4 contro il 5,3 per cento (sembra contro-intuitivo, ma conferma l’indagine Bankitalia sulla distribuzione del reddito) – e nel sud rispetto al nord.  Occorre un’opera da certosini per conoscere le singole situazioni e intervenire. Invece, si è preferita la strategia del ventilatore, sostegni a pioggia, chi è più veloce l’acchiappa e passa la paura. Forse ne beneficia la propaganda politica, forse significa più voti, certo non si traduce in meno povertà, né assoluta né relativa. Non sfuggono al rischio dell’effimero nemmeno gli stessi miglioramenti dell’indice di Gini. Il governo Draghi ne può andare orgoglioso, invece li hanno ignorati i partiti che hanno fatto parte di quell’esecutivo. In ogni caso, restano parziali e momentanei se dipendono soltanto da sostegni, bonus, erogazioni monetarie legate alla situazione contingente. Solo un aumento dei posti di lavoro può spezzare la trappola della povertà. Sembra ovvio, ma non è così a giudicare da una politica di bilancio che destina due terzi delle risorse a tamponare le perdite passate e non gli rimane nulla per stimolare la crescita futura.