Il Pnrr è un’opportunità unica per la scuola italiana. Da un lato, prevede investimenti con fondi europei, molti dei quali in edilizia scolastica, per circa 18 miliardi: una cifra senza precedenti. Dall’altro, l’Italia si è impegnata con l’Unione europea a fare alcune riforme chiave, a cominciare da una formazione e selezione più efficaci dei docenti, ingredienti indispensabili – insieme a una prospettiva di carriera – per innalzare la qualità dell’insegnamento e, dunque, le conoscenze dei nostri studenti.
Purtroppo, dopo un inizio a spron battuto, negli ultimi mesi del governo Draghi e nei primi di quello attuale, il Pnrr per l’istruzione è entrato in una fase di stallo. Il rischio è di non realizzare gli obiettivi concordati, soprattutto quelli molto impegnativi della prossima estate, mettendo in dubbio le prossime tranche di finanziamenti.
Due esempi. Il primo riguarda la formazione e l’assunzione dei docenti. Il sistema in vigore è fallito: metà delle cattedre ogni anno messe a disposizione restano senza titolare; il numero di supplenti annuali è salito all’astronomica cifra di 220.000; negli ultimi anni troppi ancora sono stati i concorsi riservati, senza una reale verifica delle capacità dei neoassunti e, di fatto, senza obbligo di formarsi nel corso della vita lavorativa. Non stupiscono i risultati deludenti della nostra scuola, nonostante la presenza di tanti bravi docenti, unicamente sospinti dallo spirito di servizio.
La scorsa estate il Parlamento ha approvato una legge di riforma dei criteri di formazione e assunzione dalla scuola media in poi: nonostante alcune scorciatoie per particolari categorie di precari, il principio cardine è che i futuri professori frequentino un corso annuale di abilitazione, con un esame finale che ne verifichi le competenze, disciplinari ma soprattutto didattiche.
Nella sua ispirazione originaria, si tratterebbe di un bel passo avanti. Ma per decollare il nuovo modello ha bisogno di un decreto che ne precisi contenuti e criteri di accesso: previsto per luglio scorso, ancora non c’è. Nel governo Draghi si sono scontrate due visioni: una rigorosa, che vuole una formazione uniforme e completa su tutto il territorio nazionale, e una morbida, sostenuta dal ministero dell’Università, che lascia ai singoli atenei la definizione dei corsi e dell’impegno degli studenti. Alla fine non se ne è fatto nulla. L’attuale governo sembra orientato all’impostazione favorevole alle università, che possono costruire i corsi con quello che hanno in casa, con il rischio, però, di avere insegnanti con livelli di preparazione molto diversi a seconda di dove si sono specializzati. Aspettando il decreto senza il quale la legge resta lettera morta e l’impegno con l’Europa disatteso, per coprire le cattedre scoperte nel prossimo anno una nuova mini-sanatoria, antico vizio, potrebbe essere alle viste.
Un secondo esempio riguarda i 2,1 miliardi di investimento sulla modernizzazione delle scuole (Scuola 4.0): in media, circa 260.000 euro a istituto, cifra mai vista. Le scadenze ravvicinate stanno, però, mettendo in crisi molte scuole, qualcuna delle quali potrebbe rinunciare ai fondi. I vincoli imposti dal ministero (almeno il 60% va speso in dotazioni digitali) porteranno le altre ad acquistare compulsivamente tablet, pc e hardware vario, di cui peraltro dopo la Dad sono già ampiamente dotate. Ma riempire le aule di strumenti digitali, senza cambiare il modo di fare scuola, è del tutto inutile, se non a fare contenti i produttori.
Sottile è, dunque, il confine fra grande opportunità e occasione persa per la scuola. E concreto è il rischio di penalizzare le future generazioni, con una formazione non all’altezza dei loro pari europei. L’unica speranza è che la Commissione europea tenga la barra dritta sulla qualità della scuola, facendo quello che i nostri decisori politici hanno rinunciato a fare da tempo.