Annalisa Savino/ Ma chi sono oggi gli indifferenti a scuola?

Per rivolgersi ai suoi ragazzi ha citato «Odio gli indifferenti» di Antonio Gramsci. Dopo l’aggressione di sabato scorso al liceo Michelangelo, sono molti i presidi e gli insegnanti fiorentini che sono intervenuti sulla vicenda.

Ma la professoressa Annalisa Savino, dirigente scolastica del liceo scientifico Leonardo Da Vinci di Firenze, ha preso carta e penna e ha scritto una lettera aperta appassionata ai suoi studenti. Lasciando da parte i toni istituzionali e le frasi di circostanza, ma vestendo i panni dell’insegnante, quasi del genitore, ha preso le distanze dalla violenza, dalla prepotenza, dai totalitarismi. E dalla banalità del male: «Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate di migliaia di persone — ha spiegato — È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti». Ma ha anche invitato i ragazzi «ad avere fiducia nel futuro e ad aprirsi al mondo».

Nell’effluvio di parole in cui siamo immersi, nel grande mare delle frasi di cicostanza che pronunciamo senza badarci più, la professoressa Savino con la sua lettera agli studenti ci ha colpito.

«Come non avere preoccupazioni in questo momento storico globale per il futuro di tutti noi? Il mio voleva essere un messaggio agli studenti affinché non fossero indifferenti a quanto accaduto a Firenze davanti al Liceo Michelangiolo. La peggior cosa è pensare che questi episodi non contino niente e che tutto sempre evolva verso più rosei orizzonti. La violenza politica è un pericolo e va sempre stigmatizzata».

Nel 2023 il fascismo non è ancora archiviato e rappresenta ancora un pericolo. Sul Corriere Fiorentino Eugenio Tassini segnala che le parole della contrapposizione politica di oggi sono le stesse degli anni Settanta.

«Il paragone regge, ma fino a un certo punto. La contrapposizione ideologica reale non c’è più in quei termini, così come la lotta armata o le sparatorie per le strade. Ma sicuramente l’estremismo nella politica studentesca è un tratto costante degli ultimi 50 anni».

Chi non ha vissuto gli anni settanta non può capire quanto siano stati terribili, per me che avevo venti anni e stavo a Firenze sono stati politicamente gli anni più brutti che io ricordi. La violenza politica che poi sfociò nel brigatismo terrorista e nello stragismo è stata come la rottura di una diga che sommerse tutto e tutti. In Italia, tra il 1969 al 1982, la violenza politica e il terrorismo fecero 1.100 feriti e 350 morti. Le Brigate Rosse dal 70 in poi colpirono carabinieri, poliziotti, dirigenti d’azienda, magistrati, giornalisti, politici, sindacalisti.

Scuole e università divennero campi di battaglia. Inoltre, a partire dalle 17 vittime causate dalla strage neofascista di Piazza Fontana, a Milano, il 12 dicembre 1969, una serie di attentati (prevalentemente di estrema destra) macchiarono di sangue il Paese: con un bilancio, fino al 1974, di 50 morti e più di 300 feriti. Furono gli anni della cosiddetta strategia della tensione

Ancora adesso ricordo come cominciò. Cominciò, come ha scritto la Savino, ai bordi di un marciapiede, con aggressioni e menar le mani. In nome del fascismo e dell’antifascismo “militante”. Cominciò con l’estremismo, rosso o nero, contrapposto in un agonismo dove non si distingueva più l’azione dalla reazione. E tutto sfociò nella violenza più cieca e più simile ai metodi mafiosi e terroristici.

L’estremismo, di qualsiasi colore sia, credo di aver capito a tarda età, è una malattia mortale. Ma, attenzione, ho sempre pensato che quando si è a scuola e un gruppetto di poche persone decide e s’impone sulla massa “oggi  si occupa la scuola”, quando cioè i diritti di tutti vengono con la violenza coartati, la situazione di prepotenza di pochi avrà conseguenze inevitabili.

Ma a sinistra e nella politica italiana questo piccolo particolare ancora non viene colto. Il diritto di occupare la scuola è stato ormai annoverato tra i diritti politici (come votare) ed ecco perchè gli anni settanta non finiscono mai. Gli indifferenti, per quanto mi riguarda, sono anche quelli che non colgono la pericolosa somiglianza tra la prepotenza di pochi studenti e quella di una cosca mafiosa.

ANTONIO GURRADO La lettera della preside – le lettere di tutti i presidi, per la verità, rientrano in un peculiare genere letterario che si colloca in una zona grigia fra il libretto d’istruzioni e l’omelia, o forse fra l’esortazione morale e il Dpcm, fra il buongiornissimo su Whatsapp e il discorso di fine anno dal Quirinale. Indefinibili per genere, le lettere dei presidi sono tuttavia uniformi nello stile, anzi nella lingua: sono infatti tutte scritte in scuolese, quel peculiare vocabolario che sceglie (anzi, predilige) sempre i sinonimi di registro più elevato, che non dichiara ma allude, e che, dovendo conciliare formalità e informalità, finisce quasi inevitabilmente per risultare paternalista (o, se la lettera è di una preside, maternalista). È un prodotto letterario ibrido e spiazzante, frutto della mancata definizione dei ruoli a monte. Cos’è infatti la scuola? Deve formare bravi studenti o cittadini buoni? Deve svolgere un programma prefissato o interpretare un’attualità fluida? Non si sa, non si è mai saputo. E i presidi, cosa fanno? Comandano davvero monocraticamente, come lamentano i sindacati, o sono costretti a barcamenarsi fra infinite pastoie burocratiche, non di rado contraddittorie, dichiarandosi prigionieri di un meccanismo che li schiaccia? Non si sa nemmeno questo, non lo sanno neanche loro. Così, un po’ Papi un po’ sacrestani, di tanto in tanto i presidi lanciano grida d’aiuto sotto forma epistolare, ora per chiamare alla resistenza ora per diffondere un meme sull’inizio dell’anno scolastico, ora per raccomandare di seguire la tal conferenza ora per ricordare quali moduli vadano allegati alla certificazione del recupero delle insufficienze nel primo quadrimestre; e queste lettere, finché un giornalista non le scova, si accumulano nella bacheca del registro elettronico insieme alla modulistica per i viaggi d’istruzione e alle direttive per lo svolgimento delle prove Invalsi, messaggi nella bottiglia a picco in un mare di circolari. Questa è una delle due cose da tenere a mente prima di considerare la famosa lettera della famosa preside di Firenze. L’altra è che l’unico genere letterario più assurdo e disperato della lettera del preside è, da sempre, la risposta del ministro dell’istruzione.