La sepoltura dell’Anpal sarà l’esito finale di un’agonia in corso da anni. Ai media sembra interessare solo l’ennesima controversia interna a governo e maggioranza, e cioè come e perché, della sua soppressione in forma di emendamento a uno dei decreti legge pendenti in Parlamento, il ministro del Lavoro, Marina Elvira Calderone, non abbia preventivamente informato salviniani e berlusconidi. A nessuno sembra invece interessare il merito, del funerale. Ed è la cartina di tornasole di un dibattito pubblico che, sulle strategie del lavoro, non ha mai avuto le idee chiare. Errore capitale, visto che la bassa occupabilità è una piaga storica anticrescita del nostro paese.
Chi qui scrive considera invece l’illacrimata morte dell’Agenzia per le politiche attive del lavoro un disastro annunciato, ma che sempre disastro resta. Quando nel 2015 nacque l’Anpal, essa mirava a un modello adottato con successo in Germania, Olanda, Regno Unito e Francia. Attribuire il coordinamento delle politiche attive del lavoro a un’Agenzia indipendente e tecnica, non soggetta al colore politico dei ministri al Lavoro pro tempore. L’Anpal doveva occuparsi dei servizi con cui la politica attiva si attua, la formazione professionale non più per soli disoccupati ma long life learning, e l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. Attraverso un sistema informatico unico e digitale per accesso e controllo dei servizi offerti, superamento in un unico standard nazionale delle asimmetrie territoriali, puntuale monitoraggio e valutazione dei servizi offerti da enti pubblici e privati accreditati. All’Anpal era attribuito coordinamento e attribuzione della pingue dote delle risorse devoluteci dal Fondo sociale europeo, con finalità più che mai necessarie. Il Titolo V della Costituzione ha esaltato l’offerta decisa dalle regioni, con asimmetrie territoriali fortissime. La formazione professionale a cura delle regioni – tranne poche eccezioni – è praticata con mansionai fordisti o pre fordisti. La piattaforma digitale unica per l’occupabilità non esiste.
Quando nacque, l’allora ministro al Lavoro Giuliano Poletti fece buon viso a cattivo gioco, anche se il ministero perdeva centralità. Ma l’intenzione era di una riforma costituzionale che toccava anche la competenza concorrente sul lavoro tra stato e regioni: riforma affossata nel referendum del 2016. Tutto è rimasto come prima. Ma da allora i ministri Di Maio, Catalfo e Orlando hanno tutti lavorato perché l’Anpal non decollasse. Le leve dovevano tornare in mano alla politica. Dopo la parentesi di Mimmo Parisi, il professore del Mississippi voluto all’Anpal dal M5s e la cui performance toccò vette eroicomiche, si è accelerata la strada fino al ripristino della soppressa direzione generale al ministero per le politiche attive, e a commissariare l’Anpal. Rigorosamente aggirato da tutte le misure assunte negli ultimi anni, a cominciare da quel Reddito di cittadinanza che è stato il fallimento assoluto sul terreno dell’occupabilità. Oggi anche la Voce, in un recente intervento della professoressa Lucia Valente, inneggia alla fine dell’Anpal. Ma i motivi addotti non convincono.
Si afferma che l’offerta dei servizi è stata pericolosamente squilibrata a favore delle Agenzie private del lavoro (Apl). Mentre è vero l’esatto opposto: è un errore clamoroso insistere sui Centri pubblici per l’impiego (Cpi), da decenni inefficienti, in cui si sono concentrati sotto Orlando i 4 miliardi e rotti del Pnrr per le politiche attive e che infatti sono i responsabili del deficitario bilancio del Gol, il piano occupabilità voluto da Orlando. Non è la riforma fallita nel 2016 all’origine di un Anpal senza senso: quella mancata riforma ci ha riconsegnato nelle mani inefficaci e inique della pericolosa asimmetria delle politiche delle diverse regioni. Solo un organo tecnico indipendente avrebbe mai potuto varare la procedura rivoluzionaria per cui le risorse devolute alle politiche attive vanno gestite premiando le best practice, cioè affidandone di più a chi ottiene migliori successi nella formazione e nel matching fra domanda e offerta in termini di occupabilità, mettendo a gara di efficienza su questo Cpi e Apl private. Uccidendo Anpal, la politica si riprende i miliardi del Fondo sociale europeo. E se i sindacati non protestano è perché inguaribilmente sono convinti che così avranno miglior gioco nel chiedere direttamente ai governi più bonus a tempo e più Cig, cioè più politiche passive del lavoro che da sempre sono la tomba dell’occupabilità per giovani e donne. Se è questo a piacervi, allora danzate pure alla morte dell’Anpal. Ma celebrate l’ennesima conferma dell’irriformabilità dell’Italia.