Di solito il mestiere dell’opposizione è controllare quel che fa il governo. Nelle ultime settimane sembra che il lavoro dell’opposizione sia diventato quello di regalare idee al governo. La maggioranza di centrodestra è forte sia in Parlamento che nel Paese ma la sua agenda economica, dal salario minimo alla tassa sugli extraprofitti bancari, viene dettata dal Partito democratico. Il centrodestra o si appropria del pensiero degli avversari, come fatto sulle banche (qualcosa di molto simile l’aveva fatta il socialista Sanchez in Spagna e in Italia Andrea Orlando aveva proposta un provvedimento analogo), oppure lo ricucina con minimi correttivi. È quel che avverrà, con tutta probabilità, sul salario minimo, a settembre.
È la politica post-ideologica, nella quale finalmente si lavora sui problemi senza badare alle appartenenze? La retorica del pragmatismo è sempre molto amata dai politici. Eppure, per citare John Maynard Keynes, «gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto» (o persino vivente).
Mai come in questi ultimi anni pensatori e forze di sinistra, non solo in Italia, hanno difeso l’idea di uno Stato pesante e interventista per risolvere questo o quel problema sociale. Il concetto non dispiace a chiunque comandi, perché la caratteristica dell’interventismo è sostituire il rispetto di regole astratte e impersonali, che dovrebbero essere uguali per tutti, con decisioni discrezionali, nelle quali il governo non è più arbitro ma scende in campo al fianco di tizio o caio.
La politica è ricerca del consenso. L’imposta sugli extraprofitti bancari risponde alla diffusa ostilità per il mondo del credito, la lotta all’algoritmo delle prenotazioni dei biglietti aerei dovrebbe placare l’irritazione per il caro-vacanze, l’apertura sul salario minimo è un tentativo di scippare la rappresentanza del lavoro povero alla sinistra. Ma chi ricerca il consenso di solito prova a calibrare le conseguenze di quello che sta facendo. Il governo Meloni sembra invece più impegnato a decidere, per dimostrare di poter decidere. Alle conseguenze s’è prestata scarsa attenzione. Gli effetti sull’erogazione del credito della nuova tassa non sono stati considerati, ma nemmeno il fatto, assai più banale, che annunciare un provvedimento simile di lunedì anziché, come più consueto, di venerdì implica quasi necessariamente qualche giorno di tempesta sui mercati. Non si è pensato che l’obbligo di esporre un cartello con il prezzo medio della benzina lo avrebbe rapidamente trasformato nel prezzo minimo. Non è ben chiaro quale sia il bene pubblico che si persegue portando il Tesoro a investire direttamente, senza neppure più il paravento di Cassa depositi e prestiti, nella rete Tim. I confini del golden power vengono continuamente ampliati, senza accorgersi che questa pretesa difesa della «sicurezza nazionale» rende le imprese meno contendibili e dunque penalizza i loro stessi azionisti.
Dimostrare di sapere esercitare il potere che si ha è sicuramente un tonico per i simpatizzanti, ma farlo senza una direzione chiara, e per giunta attingendo a man basse ai programmi altrui, può rivelarsi una debolezza. L’Italia è una economia relativamente aperta, i suoi veri «campioni nazionali» sono le imprese rese più efficienti dal confronto quotidiano col mercato globale, l’afflusso di investimenti stranieri è fondamentale per provare a crescere. Gli investitori internazionali hanno bisogno di certezza del diritto e tanto più ne hanno bisogno nei Paesi dei quali, per tradizione, tendono a non fidarsi. Il governo appare felice di fare uso del suo potere discrezionale e per giunta non ha una direzione di marcia ben definita. L’una e l’altra cosa amplificano l’incertezza. Dire a Ryanair di lasciare pure l’Italia se non le aggrada la nostra lotta all’algoritmo non può essere un modello. Chi fa la lotta al caro-voli poi non può, neanche a parole, auspicare una riduzione della concorrenza, che vorrebbe dire prezzi più alti, a maggior ragione se il concorrente da accompagnare alla porta è quello che trasporta più italiani.
Chi non governa seguendo la stella polare delle idee, di solito usa la bussola degli interessi. La presidente del consiglio ha rivendicato più volte di essere al fianco della piccola e media impresa e dei liberi professionisti. Sono proprio loro che hanno più da perdere da un Paese dominato dall’incertezza e visto con diffidenza dall’estero. Un’agenda possibile per chi vuole stare dalla parte dei «piccoli» è aiutarli a diventare più grandi, creando nuove opportunità rimuovendo vecchi vincoli. Abusando del proprio potere discrezionale, il governo al massimo fa l’architetto di un’economia bonsai.